recensione di Vincenzo D'Alessio
Mi capita di leggere tanto. Spesso sono stanco. Non mi sazio. Negli anni ho concesso molto alla lettura e poco alla scrittura. Ascolto i libri, in versi e in prosa, come si ascoltano i famigliari che tornano da un viaggio in luoghi a me sconosciuti. Sono voci tenui, di piccole gioie e grandi sacrifici. Sono vite perse, spezzate lungo il cammino. Sono vite che scendono in me stesso e gli attimi durano un tempo interminabile. Quasi sempre, dopo, non dormo.
I versi di Luca Artioli, nella collana «Ruach» di FaraEditore, hanno inciso nella mia memoria un percorso oggettivo di “una fede personale e ossessiva”, come scrive nell’introduzione alla presente raccolta il chiarissimo Massimo Sannelli. Versi che si incamminano lungo una strada arsa di fuoco poetico: “poesia non semplice né duttile”, come ci ricorda il prefatore nella sua magica introduzione.
Il sottotitolo è: La poesia come resilienza. Spiega Sannelli: “La resilienza è la capacità di adattarsi ad un’aggressione”. Di quale aggressione parlano i versi del Nostro? Mi permetto di accostare la bella poesia di Cesare Pavese, a quella di Artioli, dalla raccolta La terra e la morte (Einaudi,1973):
(…) Come la roccia e l’erba,
come terra, sei chiusa;
ti sbatti come il mare.
La parola non c’è
che ti può possedere
o fermare. Cogli
come la terra gli urti,
e ne fai vita, fiato
che carezza, silenzio.
Scrive Artioli nella poesia Ti rivedo:
(…) e la parola,
l’assediata, l’omessa nel gesto,
tace come fosse gabbia di sé stessa (pag. 23)
La similitudine, “come fosse”, compare in molte delle poesie di questa raccolta. Come l’enjambement traduce l’energia “dialettica tra il silenzio e la parola”, citata in quarta di copertina da Jack Hirschman. Cinque sottotitoli sostanziano i paralleli e i meridiani del viaggio che il Nostro compie in questa sua parte dell’esistere tra gli uomini. Quali uomini, però? I lettori attenti. Quelli che prima di cogliere la parola, resa pubblica nei versi, riescono a scoprire nelle pagine “il gesto”. Sì! Proprio il gesto che fanno i poeti piegandosi sul foglio, che è fiume e spoglia (come scriveva Ungaretti nella poesia I fiumi):
I giovani poeti conoscono
la disperazione di raccontarsi. (pag. 62, Terza persona)
Ah, i poeti sempre giovani e disperati anche a ottant’anni! Fanciulli dentro, emozionati e in cerca della parola che squadri l’anima informe per restituire al viaggio quel ritorno “sereno” che molti cercano e pochi raggiungono. L’Amore può lenire in parte il dolore del passeggero attento al paesaggio da dietro al finestrino. Ma il vento porta dal profondo delle campagne il suo profumo, anche freddo e nebbioso, che sollecita i versi a delle risposte:
(…) lo stupore chiamava
la salamandra nel retino, le mani d’argilla
(…) nel buio minaccioso
delle favole, correvamo
(…) e poi la casa, e poi il gesto che resta
il bacio di madre, e poi si cresce). (pag. 28, Il gesto che resta)
La raccolta vive della parola poetica. La trasmette in tutta la sua intensità. Ci tiene svegli nelle notti di lune cercate. Assegna alla luce una parte dirompente nell’anima che attende alla lettura. Brucia come polvere, dal deserto dell’essere, negli occhi di chi legge, nei solchi delle mani (altra figura ricorrente nelle poesie) dove sono scritte le tracce del destino. Questa è la nuova poesia del secolo presente. L’abbrivo di una esistenza spesa nel tentativo di comunicare con altri esseri viventi:
(…) e la poesia urgente, del viaggio
che adesso non può niente
sul finire di giornata (pag. 49, Settembre 2008)
Concludo, per necessità, indicando la strada maestra che questa raccolta poetica impone e che Massimo Sannelli coglie in pieno nella prefazione: “I testi hanno spessore e rigore, sono lontanissimi dal volo basso di molti coetanei: sono incredibilmente maturi, e chi ha orecchio per sentirlo lo sentirà” (pag. 8).
Montoro, 22 aprile 2011
1 commento:
Un inchino di riconoscimento al recensore :)
Grazie Vincenzo!
Luca.
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