giovedì 25 novembre 2010

Su Se non si muore di Franco Casadei


Ibiskos Editrice Risolo, Empoli 2008
recensione di Anna Maria Tamburini

Densissima di riferimenti a testi letterari e opere d’arte, dai classici ai contemporanei, ai più vicini, agli amici…, la raccolta si apre nel dialogo con un poeta amico per chiudersi ugualmente con un altro dialogo con un altro poeta amico, al femminile; e sono riflessioni sapienti sulla poesia che da sempre, per statuto, si confronta con la morte, tanto più da parte di un poeta medico.
Ci vorrebbe un poeta (p. 17), dedicata a Gianfranco Lauretano in apertura, echeggia Emily Dickinson: la riva rassicura / ma la vela è destinata al vento. È un explicit apparentemente slegato dai versi che precedono, ma in realtà proprio il senso del rischio implicito al viaggio, o volo, lega il distico alla voce che canta la follia.
 La poesia è un attimo (p. 60), dedicata a Roberta Bertozzi, in chiusura, racconta l’esperienza del poeta che è visitato senza preavviso, e costretto a vigilare per accogliere il dono della parola, ma al tempo stesso, per analogia, si dice della vita: anche la vita è un attimo.
Alcune rapidissime descrizioni manifestano l’assoluto realismo dello sguardo, acutissimo: nello sciamare d’auto / le luci aggrovigliano le strade (p. 19); oppure luccica l’argilla tagliata delle zolle (p. 23). Straordinaria la capacità di sintesi: Van Gogh, quadri (p. 24) al tempo stesso in cui realizza un quadro d’insieme della produzione di un classico della pittura, rappresenta, immagine per immagine, come già l’opera, una metafora della vita. Sapiente, nella musicalità di fondo, anche l’uso della rima che spesso, a distanza, e al mezzo, congiunge i motivi sui quali si costruisce il discorso. Valga come esempio banco, stanco, schianto  in “Nighthawks” (p. 20).      
La raccolta presenta una struttura tripartita: la prima sezione, Sull’altra sponda, che si apre con la voce di Cesare Pavese in epigrafe, vorrebbe montalianamente aprire una fessura nel diaframma che separa il visibile dall’invisibile, i vivi dai morti; e nell’anelito al divino – tanto urgente è la Sua presenza (arriverai / anche se non chiamo, p. 27) – si fa implorazione incessante: vedere la misericordia promessa (…) abbracciarti, abbracciarmi / toccarti il respiro (p. 21); che si apra la porta (p. 25); luce / luce che scendi (p. 29).
La seconda parte, Poesie del dolore, che porta in epigrafe la parola sapienziale di Paola Lucarini di memoria campiana (derivata a sua volta dalla Weil e soprattutto da Hofmannsthal) – la nostra forza / sta nella profonda inconoscibile giustezza / di ciò che accade – , parte dalle radici del dolore, dall’incontro con la morte in età tenerissima quando l’evento non si può in alcun modo elaborare tanto che si struttura, nel crescere, come presenza ossessiva del mistero e inclina alla pietas che fa partecipi del dolore dell’altro anche nel nascondimento: Ho visto un prete piangere (p. 40). È il titolo che spiega lo stupore, in questo contesto, perché un sacerdote, come un medico, matura una certa consuetudine con la sofferenza. Alludendo all’immagine evangelica della porta stretta del regno dei cieli, con una punta di dolente ironia il poeta arriva subito, in incipit, alla conclusione : È entrato dalla porta stretta (…) io, dietro la colonna…/sono uscito furtivo / dall’orto degli ulivi ovvero dal luogo della passione, dove si suda sangue. Rimane un segreto senza nome (…) esprime anche profondo rispetto della sofferenza altrui.
La terza parte, Fra partire e stare, trascrive in epigrafe versi di Montale che indicano il volo come attraversamento della soglia. La sosta (p. 54) che a riva trova scheletri di tronchi portati dall’inverno, consente vedere che il vento mutevole di marzo / ha risvegliato i rami. Emblematica è la sequenza dei testi in chiusura Come rondini sospese (p. 58), vagamente ungarettiano – si resta come rondini –, seguito da Tutto è calmo ormai (p. 59): prima il tormento agitato del trapasso e poi la quiete dopo la tempesta.
Niente rinasce se non si muore.

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