lunedì 4 maggio 2009

Su Lattice di Andrea Garbin

recensione di Vincenzo D'Alessio


La raccolta di poesie proposte da Andrea Garbin con il titolo Lattice mette a dura prova i sentimenti del lettore con un verso/racconto: lungo, poderoso, mobile. Un racconto che imprigiona la lingua di un mondo velato, non scoperto, che alleva ritmi inusitati e prove di forza tra anima e corpo. Per dirla con i versi dello stesso poeta: “la mia sporca lingua / perde d’equilibrio / appena nato / muore l’incanto” (pag. 19).
Non è facile seguire i Poeti. Non è stato e non lo sarà. Ho avuto per maestro un grande critico: monsignor Michele Ricciardelli, Writings on Twentieth Century Italian Literature (Italia, 1992), il quale mi ripeteva: “chiediti sempre il perché, il poeta che stai leggendo, ha scritto quei versi…” Me lo chiedo ogni qualvolta leggo ad alta voce i versi e ascolto, nel silenzio, l’eco che mi riporta. Capita che nei versi del Nostro scopro la solitudine montaliana, la “rimembranza” leopardiana, l’ironia dolorosa delle nuovi voci poetiche tanto care all’editore Ramberti: “lascio che l’udito mi avvolga / indicibile tormento / lascio che mi avvolga” (pag. 23).
Il Nostro è un poeta transfuga: “il mio silenzio nutre le parole / degli altri” (pag. 30) e ancora: “lo strumento per scovare il dunque / negli occhi degli altri”(pag. 31); in fuga da un mondo ossidato dalle troppe maschere di iprocisia: “tra i miei nervi ossidati” (pag. 34), dall’omicidio della gente vera: “per questo mondo che uccide gli artisti” (pag. 40) verso un mondo che genera la vita: “è forse lì che si rifugia / il brulicare della vita” (pag. 57). Credo fermamente che il lattice, il collante, il paradigma vitale che lega l’intera raccolta sia, come in ogni poeta, la dicotomia tra essere e finito: “la scomparsa dell’essere / il non essere sereni (…) è forse lì che si ricorda la sera” (pag. 57).
La sera, cara a Foscolo, ma anche ai poeti di ogni secolo. La poetica che anima questa raccolta è impregnata della “felice falsità del risveglio” (pag. 65) della rincorsa che il poeta/semiuomo inzia sulla spiaggia deserta dell’esistere e completa nel naufragio miracolo/doloroso del mare in tempesta. Noi siamo: “questo volto è il tronco dell’emulsione / della colata, della malattia / che imita l’assenza” (pag. 66). Noi seguiamo a perdifiato il senso che Garbin ci propone: “un gioco di parole che ti traggono” (pag. 17).

Maggio,2009

Nessun commento: