di Marco Scalabrino
Scrivere di Salvatore Camilleri (Catania, 1921) è, necessariamente, un po’ ripercorrere la storia della poesia e della letteratura siciliane degli ultimi sessant’anni.
L’opportunità, indeclinabile per ogni cultore della poesia e del dialetto siciliani, mi viene offerta dalla pubblicazione della sua più recente opera: Gnura Puisia, BOEMI Editore Catania 2005.
«Ho scritto SANGU PAZZU, la mia prima opera – sono parole di Salvatore Camilleri – negli anni 1944-45. Essa rappresentava il diario in termini lirici di chi, reduce dalla guerra, ha visto franare tutti i suoi sogni.»
A Palermo, prima che terminasse il 1943, Federico Di Maria venne a trovarsi a capo di un nucleo di giovani poeti dialettali: Ugo Ammannato, Miano Conti, Paolo Messina, Nino Orsini, Pietro Tamburello, Gianni Varvaro, e nell’Ottobre 1944 venne fondata la Società degli Scrittori e Artisti di Sicilia (che ebbe sede nell’Aula Gialla del Politeama).
Sul versante ionico, nella Catania del 1944, il gruppo di cui Salvatore Camilleri era l’animatore: Mario Biondi (nella cui sala da toeletta di via Prefettura si tenevano gli incontri diurni, mentre di sera li attendeva il salotto di Pietro Guido Cesareo, in via Vittorio Emanuele 305), Enzo D’Agata, Mario Gori ed altri già appartenenti all’Unione Amici del Dialetto, si ribattezzò (dietro suggerimento di Mario Biondi) Trinacrismo e LA STRIGGHIA, un solo foglio redatto perlopiù da Salvatore Camilleri e battuto a macchina da Enzo D’Agata, fu nel 1945 il loro giornaletto.
«Ho cercato – prosegue Salvatore Camilleri – nella poesia l’unica verità possibile e, giacché le parole dell’italiano erano incrostate e cristallizzate, le ho cercate nel siciliano che lasciava ampie zone al maggese, alla ristrutturazione. Bisognava inventarsi un nuovo linguaggio e la mia ricerca, di un linguaggio nuovo interiormente siciliano, fu la prima che si ebbe in Sicilia. Bisognava rinnovare la sintassi senza distruggerla, accostarsi all’analogia con cuore umile, creare una zoologia poetica, una nuova botanica poetica, un rinnovamento interiore e non solo di forme, di sostanza e non solo di impressioni fuggitive. Doveva entrare nell’area della poesia siciliana la storia, la filosofia, la sociologia, tutte le scienze, non in quanto tali, ma come patrimonio culturale che chi scrive brucia nell’atto della creazione.»
«Il dialetto – afferma Paolo Messina nel pezzo in ricordo di Aldo Grienti, pubblicato a Febbraio 1988 sul numero ZERO del ritorno del Po’ t’ù cuntu! – non era più portatore di una cultura subalterna, ma si era innalzato alla ricerca di contenuti (e quindi di forme) su più vasti orizzonti di pensiero. Sicché con lui (e con gli altri poeti definiti allora “neòteroi”, smaniosi cioè di novità e riforme) la poesia siciliana toccava il punto di non ritorno, aboliva ogni pregiudiziale etnografica, pur restando (linguisticamente) siciliana». «Naturalmente – postilla – eravamo consapevoli dei rischi dell’opzione dialettale che, se da un lato ci portava alla suggestione della pronunzia, dall’altro restringeva alla Sicilia il cerchio della diffusione e dell’attenzione critica.»
«Io – asserisce Salvatore Camilleri – intendevo rinnovare la poesia dall’interno, per evoluzione spontanea del siciliano, attraverso le fasi ineluttabili del processo di sviluppo linguistico; Paolo Messina pensava di dare subito un taglio netto al passato, e lo diede. Il motivo dei nostri diversi atteggiamenti sta nel fatto che io avevo prima letto Croce e poi i simbolisti, Paolo aveva letto prima i simbolisti, poi Croce.»
Abbiamo la data dell’inizio del movimento rinnovatore della poesia dialettale siciliana. Ce la indica Paolo Messina, nel suo pezzo citato del rinato Po’ t’ù cuntu! edito a Palermo e diretto da Salvatore Di Marco: quella del Primo raduno di poesia siciliana svoltosi a Catania il 27 Ottobre 1945.
«L’innovatore – conferma Salvatore Camilleri nel numero di Gennaio-Febbraio 1989 di ARTE E FOLKLORE DI SICILIA di Catania – fu Paolo Messina, ma bisognò aspettare almeno cinque anni prima che altri poeti maturassero quella rivoluzione, formale e strutturale che era in atto». «Aldo Grienti – ribadisce nel MANIFESTO DELLA NUOVA POESIA SICILIANA, edizione Arte e Folklore di Sicilia, Catania 1989 – fu il primo a leggere, nel 1947, le poesie di rottura di Paolo Messina, avendole pubblicate nella rubrica da lui curata.» E incalza: «Si pubblica a Catania nel 1947, diretto da Giovanni Formisano, Torcia a ventu, un settimanale con una rubrica di poesia siciliana curata da Aldo Grienti, dove appare la lirica Ura ca passa, di Paolo Messina, primo e reale esempio di poesia dialettale moderna.»
Ma cosa è stato il RINNOVAMENTO? Chi ne costituì il movimento? Quale ne fu il programma? In sostanza, di che si tratta?
In LA NUOVA SCUOLA POETICA SICILIANA, proemio al suo volume Poesie Siciliane (Palermo 1985), Paolo Messina così ricorda: «Nel 1946, alla scomparsa di Alessio Di Giovanni, quel primo nucleo di poeti, che già comprendeva le voci più impegnate dell’Isola, prese il nome del Maestro e si denominò appunto Gruppo Alessio Di Giovanni. Occorre però dire che non ci fu un manifesto, né l’ausilio di un apparato critico, né un riscontro adeguato sulla stampa. I maestri preferimmo andarceli a cercare altrove e ricordo che si parlava molto della poesia francese, da Baudelaire a Valéry, e delle avanguardie europee. Circolava di mano in mano un vecchissimo volumetto delle Fleurs du mal, che credo fosse di Pietro Tamburello (il più informato allora, fra noi, sulla poesia straniera) e circolavano ovviamente i testi della Scuola Poetica Siciliana, di quella grande “ouverture”, come fu detto, che preluse, tanti secoli prima, alla nascita della nostra civiltà letteraria.»
Il numero di Settembre 1988 del giornale di poesia siciliana, ospita il pezzo dal titolo UNA OCCASIONE MANCATA. Da esso stralciamo: «Allorquando nel 1953 quel gruppo di poeti riunito da comuni idealità di rinnovamento letterario e culturale, constatata l’impossibilità di condurre in Sicilia un discorso di poesia nuova attraverso le pagine del Po’ t’ù cuntu!, pensò di darsi un proprio foglio di proposta e di battaglia letteraria, Pietro Tamburello volle chiamarlo Ariu di Sicilia. Fondato nel 1954 da Pietro Tamburello, che ne assunse la redazione, Ariu di Sicilia fu un foglio di quattro pagine, che usciva ogni mese e che durò esattamente da Marzo a Ottobre di quell’anno. Visse il suo breve tempo in povertà di mezzi finanziari e fu un semplice inserto del Po’ t’ù cuntu! I testi pubblicati furono in tutto 115 di 41 autori. Tra questi c’erano Ugo Ammannato, Miano Conti, Aldo Grienti, Paolo Messina, Carmelo Molino, Pietro Tamburello e Gianni Varvaro. Meno costanti ma presenti: Ignazio Buttitta, Salvatore Di Pietro, Nino Orsini, Elvezio Petix.»
Nell’articolo titolato LA CIVILTÀ DEI CAFFÈ, pubblicato nel Febbraio 1988 a Palermo sempre sul numero ZERO del Po’ t’ù cuntu!, Salvatore Di Marco registra: «Negli anni Cinquanta c’era a Palermo, in via Roma quasi all’altezza dell’incrocio con il Corso Vittorio Emanuele, uno dei caffè Caflish. Al piano superiore, una saletta con sedie e tavolini. Ebbene, in quel luogo e per anni – sicuramente dal 1954 al 1958 – nella mattinata di tutte le domeniche si riunivano i poeti del Gruppo Alessio Di Giovanni. Frequentatori erano, oltre a chi scrive, Ugo Ammannato, Pietro Tamburello, Miano Conti, Gianni Varvaro e altri. Vi arrivavano spesso Ignazio Buttitta da Bagheria, Elvezio Petix da Casteldaccia, Antonino Cremona da Agrigento, e da Catania Carmelo Molino e Salvatore Di Pietro: insomma, i personaggi più significativi allora della nuova poesia siciliana. In quegli incontri si leggevano poesie, si parlava del dialetto siciliano, si discuteva di letteratura e di politica».
MUSEO ETNOGRAFICO è un pezzo non firmato apparso il 31 Maggio 1954, ma, sostiene Salvatore Camilleri, sicuramente di Pietro Tamburello. Vi è detto fra l’altro: «Noi vagheggiamo un ideale museo ove riporre definitivamente i tardi epigoni del Meli e dello Scimonelli, i rapsodi d’un inverosimile mondo pastorale, i beati menestrelli di una Sicilia convenzionale e manierata e tante brave persone che professano critica letteraria e non sanno distinguere fra la melensa faciloneria dei loro compagni di museo e la consapevolezza di chi affida al linguaggio del focolare i propri sentimenti, il suo pensiero e le sue fantasie, solo per una esigenza spirituale che si può discutere ma non ignorare. In questo museo delle idee sbagliate non può mancare quella di chi considera il poeta siciliano un complemento del folklore locale, quasi una curiosità paesana da offrire ai visitatori insieme al carrettino, alla brocchetta e al paladino di Francia impennacchiato.»
Nel 1957 Aldo Grienti e Carmelo Molino furono i curatori della Antologia POETI SICILIANI D’OGGI, Reina Editore in Catania. Con introduzione e note critiche di Antonio Corsaro, essa raccoglie, in rigoroso ordine alfabetico, una esigua qualificata selezione dei testi di 17 autori: Ugo Ammannato, Saro Bottino, Ignazio Buttitta, Miano Conti, Antonino Cremona, Salvatore Di Marco, Salvatore Di Pietro, Girolamo Ferlito, Aldo Grienti, Paolo Messina, Carmelo Molino, Stefania Montalbano, Nino Orsini, Ildebrando Patamia, Pietro Tamburello, Francesco Vaccaielli e Gianni Varvaro.
Ma già prima, nel 1955, con la prefazione di Giovanni Vaccarella, aveva visto la luce a Palermo l’Antologia POESIA DIALETTALE DI SICILIA. Protagonisti il Gruppo Alessio Di Giovanni: U. Ammannato, I. Buttitta, M. Conti, Salvatore Equizzi, A. Grienti, P. Messina, C. Molino, N. Orsini e P. Tamburello.
«Oggi la poesia dialettale – scrive tra l’altro Giovanni Vaccarella nella prefazione a POESIA DIALETTALE DI SICILIA – è poesia di cose e non di parole, è poesia universale e non regionalistica, è poesia di consistenza e non di evanescenza. Lontana dal canto spiegato e dalla rimeria patetica, guadagna in scavazione interiore quel che perde in effusione. Le parole mancano di esteriore dolcezza e non sono ricercate né preziose: niente miele e tutta pietra. Il lettore di questa poesia è pregato di credere che nei veri poeti la oscurità non è speculazione, ma risultato di un processo di pene espressive, che porta con sé il segreto peso dello sforzo contro il facile, contro l’ovvio. Perché la poesia non è fatta soltanto di spontaneità e di immediatezza, ma di disciplina. La più autentica poesia dei nostri giorni è scritta in una lingua che parte dallo stato primordiale del dialetto per scrostarsi degli orpelli e della patina che i secoli hanno accomunato, per sletteralizzarsi e assumere quella condizione di nudità, che è la sigla dei grandi.»
«I dialettali – osserva Antonio Corsaro, in prefazione a POETI SICILIANI D’OGGI – non sono mai stati estranei alle vicende della cultura nazionale, anche se, disuguale è il loro piano di risonanza. Nell’ambito di una lingua, per dire, ufficiale, che assorbe e trasmette tutte le vibrazioni di un’epoca, il dialetto si presenta come una fuga regionale. Ma in un periodo come il nostro che nella poesia ha versato gli stati d’animo, l’essenza umbratile e segreta dello spirito attraverso un linguaggio puro da ogni intenzione oratoria, i poeti dialettali si trovano nella identica situazione dei loro compagni in lingua, senza che neppure la difficoltà del mezzo espressivo costituisca ormai una ragione valida di isolamento. Tanto più che i nostri lirici in dialetto sono già arrivati a un tal segno di purezza e a una tale esperienza tecnica da non avere nulla da perdere nel confronto con i lirici in lingua. Anzi, in un certo senso, i dialettali ne vengono avvantaggiati per l’uso che possono fare di una lingua meno logora, attingendola alle sorgenti che l’usura letteraria suole meglio rispettare.»
Nel 1959, nel saggio dal titolo ALLA RICERCA DEL LINGUAGGIO, Salvatore Camilleri considera: «Si cerca di restituire alla parola una sua originaria verginità fatta di senso e di suono, di colore e di disegno, ricca di polivalenze. È una continua ricerca di esperienze formali, in cui l’analogia gioca la parte principale nel creare situazioni liriche e contatti tra evidenze lontanissime. Qualcosa si è fatto veramente poesia, poesia siciliana, cioè sentita ed espressa sicilianamente, con immagini siciliane oltre che con parole. Il fatto strano, fuori dalla logica progressione delle cose, è che la rivolta è nata di colpo, sulle esperienze altrui (italiana, francese etc.) e non sull’esperienza siciliana.» E puntualizza: «La parola, nel contesto poetico, liberata dalle sue incrostazioni, ha perduto parte del suo significato semantico, acquistandone uno meno deciso, legato alla sua posizione, logica e fonica: quello analogico», «l’immagine si è liberata dall’oggetto, risolvendosi nel simbolo, senza però mai sganciare la realtà dall’ordine oggettivo, l’aggettivazione ha subito una stretta e diviene ricerca e approfondimento del lessico.» Si tende ad «umanizzare gli oggetti, dando ad essi le emozioni degli uomini, a trasfigurare la realtà e trascenderla sempre.>
«A nostra puisia canciò strata – attesta Paolo Messina in PUISIA SICILIANA E CRITICA, del 1988 – picchì si livò u tistali d’i tradizioni pupulari». E, nel menzionato LA NUOVA SCUOLA POETICA SICILIANA, precisa: «Il dialetto era per noi un modo concreto di rompere la tradizione letteraria nazionale». Ed enuncia tre di quelli che furono i capisaldi programmatici del Gruppo Alessio Di Giovanni:
1. L’elaborazione e l’adozione di una koiné siciliana;
2. La libertà metrica e sintattica a vantaggio della forza espressiva ma in una rigorosa compagine concettuale e musicale (di valori fonici, timbrici e ritmici);
3. L’unità di pensiero, linguaggio e realtà (che doveva o avrebbe dovuto garantirci una visone prospettica siciliana della vita e dell’arte).
POETI SICILIANI D’OGGI «fu il libro – asserisce in seguito lo stesso Camilleri, in prefazione a POETI SICILIANI CONTEMPORANEI del 1979 – che mise definitivamente una pietra sul passato. Le idee si erano fatta strada, avevano raggiunto i poeti in ogni angolo della Sicilia, anche i più solitari, i meno propensi a mutar pelle, e li avevano costretti a ragionare; e così, nell’ansia polemica del rinnovamento, all’eccessivo sperimentalismo formale e al gusto funambolico dei più avanzati seguì l’abbandono dell’ottava e del sonetto, divenuti solo strumenti propedeutici; a un più deciso lavoro sulla parola e sulla metrica seguì, da parte anche dei più retrivi, il rifiuto dei moduli tradizionali. Da questo travaglio, dai più avanzati che volevano romperla totalmente con il passato, ai moderati che volevano innestare le nuove idee nell’albero della tradizione, nacque la poesia siciliana moderna, anche grazie alla conoscenza che i più ebbero del simbolismo francese e dell’ermetismo italiano.»
Le due sillogi, che ebbero al tempo eco nazionale (il poeta e critico romagnolo Giuseppe Valentini sulla rivista IL BELLI - fascicolo n° 2, luglio 1955 - scrisse: «Il dialetto siciliano fa pensare, delicato e ricco com’è, al frusciar di una mano giovane su di un arcaico velluto» e una recensione a cura di Paolo Messina apparve in data 21 Maggio 1955 su IL CONTEMPORANEO di Roma) e tuttora sono ben note agli appassionati, sono state antesignane del Rinnovamento della Poesia Dialettale Siciliana.
Il Rinnovamento della Poesia Siciliana – la stagione allora segnata dal movimento di giovani poeti dialettali palermitani e catanesi – fu rinnovamento fondato sui testi e non sugli oziosi proclami, sugli esiti artistici individuali e non su qualche manifesto; ha spazzato via la ridondanza dell’aggettivazione, l’oleografia dei vezzeggiativi, la sclerosi della tradizione.
E – direte voi – Salvatore Camilleri?
Egli, reo come del resto Mario Gori a quel tempo di non vivere più in Sicilia, non figura in nessuna delle due antologie: né la palermitana POESIA DIALETTALE DI SICILIA né la catanese POETI SICILIANI D’OGGI.
Ma scorriamo gli avvenimenti più qualificanti di quegli anni, premettendo quanto egli ci rammenta:
1. il Siciliano, con la poesia alla corte di Federico II, è stato determinante per la nascita della poesia italiana;
2. il Siciliano è stato lingua ufficiale per oltre due secoli (il XIII e il XIV);
3. il Siciliano è stato strumento letterario di poesia e di prosa: nella seconda metà del sec. XV diede vita alle Ottave o Canzuni, nel sec. XVIII a un autentico poeta come Giovanni Meli e nel XIX secolo a Nino Martoglio, ad Alessio Di Giovanni, al Premio Nobel Luigi Pirandello;
e per inciso considerando che in Sicilia già dal Cinquecento operavano due Università: quella di Catania e quella di Messina; che nel 1543 il siracusano Claudio Mario Arezzo propose di istituire il siciliano come lingua nazionale; che a sostegno della dignità del dialetto sovvengono la presenza di Vocabolari, di testi di Ortografia, di Grammatica, di Critica, eccetera.
Nel 1952 Salvatore Camilleri si trasferisce a Vicenza, per insegnarvi. Ma prima, nel 1948, pubblica una Antologia del sonetto siciliano (con una premessa rappresentata da un “Disegno storico della poesia siciliana”, di cui Paolo Messina in seguito dirà «prezioso, specie per chi si era spinto oltre i confini sorvegliatissimi della tradizione») e inizia a tradurre i classici e pubblicare, sul quotidiano catanese Il corriere di Sicilia, articoli sui poeti siciliani del Cinquecento e del Seicento.
Nel 1955 Carmelo Molino pubblica Curaddi e Giuseppe Mazzola Barreca Scuma di mari.
Nel 1957 Antonino Cremona pubblica Occhi antichi.
Nel 1958 Salvatore Di Pietro pubblica Muddichi di suli.
Nel 1959 Gianni Varvaro pubblica Terra viva.
Nel 1959 Salvatore Camilleri pubblica sul Po’ t’ù cuntu! svariati articoli sulla poesia siciliana dei secoli passati e recensisce una cinquantina di poeti contemporanei, fra i quali G. Mazzola Barreca, C. Molino e G. Varvaro.
Nel 1962 Salvatore Camilleri rientra a Catania.
Nel 1965 Salvatore Camilleri e Mario Gori, i cui contatti nel frattempo si erano rinsaldati, pubblicano la Rivista Sciara, cui collaborano, tra gli altri, Leonardo Sciascia, Giuseppe Zagarrio, Giorgio Piccitto, Nino Pino e Santo Calì.
Nel 1966 Salvatore Camilleri pubblica, per conto dell’Editore Santo Calì, Ritornu e nel medesimo anno Sangu pazzu, ove la lingua «non è catanese, né palermitana, ma rappresenta la koiné regionale, determinata dalla sola legge del gusto; l’ortografia è quella tradizionale liberata dalle incoerenze, legata alla etimologia latina, ma non sorda al rinnovamento linguistico».
Nel 1971è la volta di La barunissa di Carini.
Il volume I di ANTIGRUPPO 73 (ispirato e realizzato da Nat Scammacca e Santo Calì, coadiuvati da Vincenzo Di Maria), riporta otto testi in dialetto di Salvatore Camilleri, tra i quali QUATTRU CÒPPULI, CUDDUREDDA, RAGIUNERI, e il suo commento: «Le otto poesie di questa antologia non sono che l’introduzione a un canto corale d’amore per la mia terra, una specie di canto generale il cui protagonista sarà l’anima siciliana espressa da tutti gli elementi che la compongono.»
Nel 1975 Alfredo Danese decide di fondare e pubblicare il periodico ARTE E FOLKLORE DI SICILIA, sulle cui pagine Salvatore Camilleri – che vi collabora sin dall’esordio – darà fondo alla sua vocazione di letterato con decine e decine di saggi e interventi critici.
Nel 1976 Salvatore Camilleri pubblica Ortografia siciliana «di cui quest’opera vuole rappresentare la prima presa di coscienza. Scrivendola, ho pensato – dichiara nelle brevi note che corredano il volumetto – soprattutto ai poeti siciliani, i veri e interessati fruitori di essa.»
Nel 1979 Salvatore Camilleri dà alle stampe Luna Catanisa. «Non c’è risoluzione dei problemi formali senza risoluzione all’interno della coscienza, non c’è versante espressivo senza versante umano, non c’è arte senza vita. La poesia nasce sempre nell’ambito della sua dimensione storica, esistenziale e umana, non mai dall’esercizio fine a se stesso, dal nulla».
Nel 1979 Salvatore Camilleri cura l’antologia Poeti siciliani contemporanei.
Nel 1982 Pietro Tamburello pubblica Li me’ palori.
Nel 1983 Enzo D’Agata pubblica Làcimi a focu lentu.
Nel medesimo 1983 Salvatore Camilleri pubblica 70 POESIE, Federico Garcia Lorca nel siciliano di S. C. «Nessuno procede da solo né nella vita, né per i sentieri della poesia; né mai poeta ha percorso la sua strada senza avere a fianco altri compagni di viaggio, altri poeti, senza ricevere e senza dare a quelli che vengono dopo».
Nel 1985 Paolo Messina pubblica Rosa fresca aulentissima.
Nel 1986 Carmelo Lauretta pubblica La casa di tutti.
Nel 1989, a cura di Salvatore Camilleri, viene stampato il MANIFESTO DELLA NUOVA POESIA SICILIANA, che raccoglie i saggi e interventi critici pubblicati nel corso degli anni sul periodico ARTE E FOLKLORE DI SICILIA. Tra essi assai intriganti: Il Simbolismo, Sentir Siciliano, Langue et Parole, L’Espansione Denotativa, Poesia e Magia, Non siamo dialettali!, Il correlativo oggettivo. «Questo libro, in fotocopie, di saggi e poesie che hanno visto la luce negli ultimi quarantacinque anni, vuole avere, pur nella modesta area di diffusione, molti destinatari, che si spera non siano soltanto fruitori, ma soprattutto diffusori di idee.»
Nel 1998 Salvatore Camilleri pubblica Il Ventaglio – Vocabolario Italiano-Siciliano. «Nel 1944, quando iniziai a scrivere in siciliano, sentii subito la mancanza di un vocabolario. Quelli che trovai, non più in commercio, ma in biblioteche pubbliche, erano vecchi di quasi un secolo, e praticamente inutili, in quanto si trattava di vocabolari siciliano-italiani. Mancava il vocabolario che mi occorreva, come mancava a coloro che scrivevano per il teatro, agli attori dialettali, agli studenti, ai moltissimi appassionati del dialetto: mancava un vocabolario italiano-siciliano, cioè uno strumento capace di aiutarmi concretamente tutte le volte che non mi veniva in mente il corrispondente siciliano di un vocabolo italiano.»
Nel 2001 Salvatore Camilleri pubblica Lirici greci in versi siciliani (Archiloco, Mimnermo, Stesicoro, Alceo, Anacreonte, Simonide, Callimaco, Teocrito ed altri). «Traduco perché le mie traduzioni, come i miei versi, possano far parte della cultura siciliana. È stato un esercizio propedeutico fondamentale: mi ha aiutato a fare i conti, ancora una volta, con la versificazione, e ad averne ragione, e ciò nelle situazioni più difficili, quali sono quelle che si presentano a chi traduce; mi ha permesso di misurarmi con i poeti che traducevo, e che innalzavano, mettendomi in sintonia con la loro intelligenza poetica, i miei livelli di ispirazione; e infine ha favorito, dopo tante esperienze, la creazione di un mio linguaggio poetico, il linguaggio delle mie opere.»
Ha peraltro tradotto e/o adattato in versi siciliani: L’Odissea di Omero (Musa, pàrrami tu di dd’omu, mastru / di tutti li spirtizzi, chi gran tempu /…), L’Eneide di Virgilio, Le Argonautiche di Apollonio Rodio, De Rerum Natura di Lucrezio e ancora poeti lirici spagnoli e francesi, Ibn Hamdìs, Muhammad Iqbàl e gli Arabi di Sicilia.
Tra le ultime opere pubblicate: Saffo e Catullo – poeti d’amore e La Grammatica siciliana.
Ragguardevole, inoltre, l’opera cui forse più egli tiene: la STORIA DELLA POESIA SICILIANA, in trenta volumi, di cui taluni già pubblicati.
Sul numero di Luglio-Agosto 2001 di ARTE E FOLKLORE DI SICILIA, in memoria di Pietro Tamburello, Salvatore Camilleri appunta: «Due volumi di poesie – Li me’ palori, del 1982 e in Rosi di ventu, del 1998 – nel complesso poco più di mille versi, pochi rispetto a quelli composti durante tutta una vita dedicata alla poesia siciliana. Non si può parlare, quindi, della produzione del poeta, ma di una scelta. Pietro Tamburello è un poeta ben degno di essere studiato, in profondità, lungo gli itinerari che l’hanno portato alla sue cose migliori. Dico per lui ciò che ho detto per Mario Gori e per Santo Calì: Approfondiamone l’opera con impegno e amore.»
Sulla stessa linea Paolo Messina, nella introduzione al volume DOVE PASSA IL SIMETO di Aldo Grienti, ribadisce: «Qualcuno (uno storico della nostra letteratura) prima o poi dovrà pure far piena luce anche su quella nuova ouverture siciliana.»
Mi sento di condividere appieno gli auspici appena espressi anche, evidentemente, in relazione all’opera di Paolo Messina e di Salvatore Camilleri.
Gnura Puisia, con le sue «piogge autunnali», rappresenta oggi l’ultimo capitolo di questa grande storia, la summa di tutto il suo lavoro, il compimento di tutto il suo amore verso la poesia siciliana, il raggiungimento di un sogno che ha costituito tutta la sua vita. «Quasi un ventennio di riflessioni, soste, incontri, avanzamenti, in armonia con la condizione esistenziale di chi sa di non potersi abbandonare totalmente all’eresia, lo status ideale del poeta, creatore per eccellenza, quindi innovatore, trasgressore, ed anche – nei limiti – programmatore. Il cerchio non si chiude, ma tende a chiudersi. Le conquiste formali precedenti, con pochi aggiustamenti, rimangono le conquiste di sempre, divengono le colonne del tempio; il contenuto, pure attraverso gli assalti della sofferenza, continua sulle tracce iniziali: ‘n-cerca di puisia, ‘n-cerca d’amuri pi canciari lu munnu a sumigghianza di lu me cori.»
Trazzeri stritti e sempri fora manu
li mei spiranzi, scarpi di camosciu
pari ca sungu fermu e nveci curru
mentri la vita mia si va scusennu.
Di tutti l’anni mei, patruna, amica,
lu ventu sona tutti li cianciani,
c’è na musica nova nta li cosi
e qualchi vota ci arrobbu un sicretu:
la luna avi l’occhi abbuscicati
li lacrimi si ficiru di vitru
nta lu cori li venti s’accapìddanu.
Cala la negghia supra li paroli
e s’allicca la lingua nta li scogghi.
Comu pozzu ju sulu libirarla?
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