peQuod, 2007
recensione di Alessandro Ramberti
Leggere questa nuova opera di Roberta Bertozzi è come avere un corpo che ti abbraccia, le parole scorrono come la barca sul fiume dove, secondo la leggenda, sono stati abbandonati – dopo aver loro bruciati i tendini – i due figli di Clodoveo II (v. qui sopra il famoso dipinto di Évariste Vital Luminais, 1880, Musée des Beaux-Arts, Rouen). Le parole scorrono, dicevamo, a volte si incagliano, spumano e sfolgorano:
(…)
Così l'oblio, così regolare
letargia
questa sequenza senza congedo:
nasce l'uomo che non è ancora chiaro
e così continua nel nastro – nel sogno io
(…) (p. 14)
(…)
un figlio, due, appesi al chiodo
trapassato della foto, da dove scappano
(…) (p. 19)
(…)
La rotta prende spunto solo dalla costruzione della frase.
Le stelle – mendicano. La corrente insegue.
Vediamo le vele a fianco accordare al minor circuito
tutta la direzione. Spinge il bisogno, il nesso.
(…) (p. 21)
(…)
«Vorrei poter dire di qualsiasi posto
che non ci sono mai stato…»
(…) (p. 29)
Già questi lacerti sono esemplari del timbro esatto e ben tornito di una voce poetica di grande espressività e maturità stilistica. Certo la lettura cosparsa di dialoghi, di spiazzamenti e di numerosi ma ben amalgamati echi letterari (e biblici) non è facile, ma la scelta lessicale sobria e il ritmo ben scandito dagli a capo avvolgono nel loro flusso il lettore, che se si lascia lui stesso in qualche modo “enervare” dalle immagini di questo poema finisce per esserne lui stesso un attore, un interprete, un protagonista: ci sono mondi di suggestioni, di emozioni, di ragioni (del cuore e non solo) da scoprire in queste pagine che interrogano anche il senso della storia, dei vissuti; propongono l'unica definizione di sé possibile, che è quella che nasce dall'incontro; usa una lingua duttile e sintatticamente sofisticata ma sempre calibrata, misurata mai eccessiva.
A volte pare che questa lingua si attacchi al palato per le sospensioni abissali di certe implicite domande, ma poi c'è una magia del suono-eco-del-pensiero che è bellezza, intima e misteriosa ricerca.
È una densa enciclpedia di vita, dove la poesia recupera un tono quasi epico, ha nerbo e forza che non è energia sprecata (come sembra suggerire la citazione conclusiva di Rimbaud) ma una energia donata a ogni confratello di lingua che ne sappia dirozzare i meccanismi, e apprezzarne l'infinita miniera di metafore:
(…)
“È così poco polito il nostro linguaggio e poca speme” per sottrarre realtà al linciaggio, per chiarire.
Il roveto ossuto della memoria scolora
a ogni scossa. L'idolo che ti chiamano a venerare
si spella, abbrevia
e tutto viene meno irrobustendo
cedento al suo dovere di nascita
e di espiazione
(…) (p. 34)
(…)
e tu mi leghi – mio fraterno, altro genitore
per il preservativo di catrame delle strade
(…) (p. 39)
(…)
Dove comincia il riassunto e dove cominciamo noi?
(…) (p. 62)
(…)
Le tre del pomeriggio, passa un rettile di luce.
Passa un proiettile di gabbiano, di sterzata d'auto.
(…) (p. 66)
(…)
La fabbrica si spegne e torna monolite il mondo
(…) (p. 73)
(…)
Hanno detto è tempo di spremitura, di rimagliare
l'archivio, di stare all'asciutto – tempo
di fare un figlio voi, un altro precipizio della carne;
(…) (p. 82)
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