mercoledì 30 gennaio 2008

Poesie in forma di rosa (Cosimo Caputo)

commento a margine della raccolta di poesie di Antonietta Gnerre Fiori di vetro
(pubblicato su «Il Sannio» del 24-2-08 v. qui)

In un mondo sempre più cinico e materialista – dove tutto si misura in termini di do ut des – qui risuona la gratuità del suono, della parola, del ritmo, dell’incanto di sillabe. Sgorgano faville come dono di una intimità vertiginosa; tra l’io e il mondo sorge una premonizione di rugiada: è lo stelo di un fiore che si incarna in una promessa d’amore.
Se il “compito dell’arte è trovare una forma che accolga la confusione” (S. Beckett), Antonietta Gnerre vi riesce nel momento in cui rimette in sesto i cocci dell’esistenza, trasfigurandoli nella dignità della luce «Tutto prende forma / nelle mie pupille / d’invenzione » (pag. 13), nell’attimo in cui sostanzia – per dirla con M. Heidegger – “un poetare originario e primitivo”, tra il rigore della geometria e la leggerezza della fantasia.
Parole che risalgono in gola, pronte a germogliare e a ridare un significato più profondo a ciò che spesso si presenta opaco e assurdo “Solo un artista può indovinare il senso della vita” (Novalis ).
È una fresca ventata di grazia che pare rinnovarsi ad ogni pagina di questo libro così delicato e prezioso. Un unicum di immagini, visioni, intuizioni; un affidarsi alla bellezza al fine di esorcizzare il vuoto, di rintuzzare l’inverno dell’anima, di recuperare la sacralità delle cose.
Il mondo è visto sub specie aeternitatis. Frammenti che diventato scarti di bellezza, lacerti di una pietas che affratella gli esseri umani. Dettagli di cronaca e squarci di metafisica che presentano una innegabile potenza simbolica « Sarà il mio cuore / seduto sulla ruota delle acque / a svelarmi il futuro tra le rose / fasciate negli scaffali di vapore» (pag. 47).
Con Seamus Heaney, potremmo dire che l’Autrice: “Dà credito alla poesia” , affilando le armi per una resistenza attiva fatta di sentimenti, emozioni, atti di carità quotidiana e facendo scaturire un canto che diventa coscienza dolorosa del proprio tempo. Un grido ancestrale e veemente che proviene da immemori radici, da nidi siderali, dalle province più remote dell’universo «Vicino alla luna allacciata al / vento dei girifalchi consumo / zuppe di versi» (pag. 84).
Vincastri, spirali, ghirigori, cerchi, labirinti, nodi, rami, foglie, sassi, cupole, ecco le evoluzioni di corpi che ricevono una spinta verso l’alto e che si inarcano quasi a forare la volta celeste «qui io le guardo / arrivare tra le mani / contro un cielo di vetri» (pag. 65).
La nostra poetessa ha la capacità metaforica di collegare entità disparate, elementi che appaiono a prima vista discordanti tra loro; insomma, con abilità e maestria sa miscelare quelli che Ferlinghetti definisce “gli ingredienti di tutti i giorni”.
E infatti nella sua lirica nulla vi resta escluso: la terra e i luoghi fisici della memoria, gli oggetti e gli utensili, gli studi e la fede, il privato e le relazioni sociali, i rimpianti e le attese «coriandoli d’osso sullo stampo / delle attese» (pag. 55), i tormenti e i sogni «m’inchiodano i sogni indifesi / tra le ciglia bruciate / come farfalla di rame» (pag. 83) – «Rimango a volte / nei ricordi irrequieti di questa terra / a sognare nuove onde di stagioni» (pag. 90).
Dal suo caleidoscopio emerge un fiorire di linee, punti, tracciati, ascensioni; quasi una nuova percezione dell’Essere e dell’esistenza che riapre orizzonti di speranza, con il supporto di ardite costruzioni linguistiche «nelle linee incartate dal sonno / il tempo dei giardini fioriti / è serrato sul catrame ai piedi dei pini / nel sud dove le curve dell’erba / risalgono gli ulivi selvatici/ sul tramonto del cuore» ( pag. 85) – «senz’ombra per la scialba luce / come cani sotto i ponti della storia / filtrano i poeti lo stupore veggente / con l’ascensore delle parole / sognano nel tempo / dei bruchi / sorpresi dal colore / dell’erba nella clessidra / aspettando la flora del motivo» (pag. 93) e di altisonanti allegorie «la farina si srotola / pettina sugli orti / il raccolto dei cristalli» (pag. 61).
Una irruenza lirica che si avvale di misteri e di allusioni, di fiducia e di sfinimenti «l’inverno/ di questo/ mondo / consuma / la mente» (pag. 81). Lapilli e cenere, impegni ed oblio «chiusi nei lunghi meriggi in sacchi / dimenticati come fiori di papavero» (pag. 21).
La dimora e l’esilio. Identità ed esproprio, appartenenza e spersonalizzazione «oggi ritorna / sui veli secchi / di sambuco / il tuo nome / nel sogno / si felpa / s’apre / oltre l’universo / giocando a dadi»(pagg. 63-64).
Antonietta Gnerre, pur rimanendo inchiodata alle proprie radici, tenta di spiccare il volo verso un altrove reale, concreto e – al tempo stesso – utopico, immaginifico; resta in lei un qualcosa di inespresso, un antico pudore che relega il tutto in un paesaggio umbratile e trasfigurato, con una natura quando palpitante e vitale, quando pietrificata, immobile, imperturbabile.
L’Autrice è una creatura debole e ferita, ontologicamente impotente ma che dispiega “le sue ali di gigante” (Baudelaire) per un’opera che sfida l’insignificanza, la mediocrità, le brutture del mondo.
In conclusione, in Fiori di vetro sembrano risuonare gli echi di una poesia al femminile (E. Dickinson / Sibilla Aleramo/ Alda Merini/ Amelia Rosselli/ le poetesse russe) alimentata da fuoco sotterraneo e da energia tellurica.
Un’ ebbrezza panica che riavvolge il tutto in una disperante mitezza, in una magica forza evocativa.
Una solitudine feconda e visionaria capace di aprirsi al numinoso e al sapienziale.
Mani di frumento, colline di ulivi, stelle invisibili, zolle disossate (alla prima luce dell’alba o nella penombra della sera) fanno da sfondo ad un dettato doveroso, umile e sincero in un’avventura linguistica ed esistenziale – come quella di Antonietta – ad un tempo estetica ed etica, simbolica e morale, con versi che si fanno lievito per il pane della festa «Tra le cornici aspetterò / i tuoi amuleti il tuo pane / azzimo» (pag. 28).

Cosimo Caputo

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