mercoledì 10 ottobre 2007

Su Fiori di vetro di Antonietta Gnerre


Commento critico di Narda Fattori

L’opera della Gnerre è divisa in più sezioni , la più corposa della quale è ”Restauri di solitudine”.
È un titolo bifronte, quasi ossimorico: la solitudine restaurata è una ricerca di un nuovo silenzio o, al contrario, il restauro della solitudine è il riempire di sensi la stessa? È la prima domanda che mi sono posta e alla quale ho presto trovato risposta a pag. 16 dove ho incontrato questi splendidi, fulminei versi, che hanno più ampio il bianco del nero dei caratteri della scrittura:

tra gli sterpi sterili
di rami ceduti dai becchi

sui centimetri dell’erba
solitaria di pollini

tra la verzura

plano un’alba appena tinta
sui cocci di velluto


Eccola la solitudine come assenza, vuoto che cede ad una meraviglia che pur fa male.
Si rifletta sui cocci di velluto, antitetici, che la vita è: coccio e velluto, solitudine e incontro, dono e furto del sé.
La poetessa ha un’immagine tragicamente dolorosa dell’esistenza e, contemporaneamente sa che può vincerla, per una luce, un vigore, un rigoglio che si fa benedicente se sorretta dal dono alto della fede: “… Ti prego abbandonami nei cerchi / della luce fragile delle tende / e dimentica il mio cuore nel Sud dei tormenti.”
Ma tutte le poesie di questa sezione che hanno ricercatezze formali ben evidenti e qualche astuzia retorica, grondano del dolore della terra, dell’essere creatura della terra, dolente, gravata, meschina dove “come spugna il silenzio / tinge la pelle di sangue”. Allora saranno necessari molti amuleti, molto pane azzimo; la poesia è un viaggio, o forse una compagna di viaggio, che aiuta a reggere i bagagli. Ma non vorrei andare anch’io per metafore nel commentare queste belle poesie che solo abbondano di ricercate metafore, appunto, quando, e la poetessa lo sa, è sulla soglia, sui marciapiedi, all’interno del cuore che si vive e si medica la solitudine.
La poesia della Gnerre è stringata, corposa, a volta sapienziale o duttile come gli haiku di una sezione, tutti curati.
Ne cito un paio, esemplari: “sono stanca / del sole che / muore nel /mese azzurro”; e “ricamo stelle / sul tempo / del campanile / seduta a guardare”.
Anche Ramberti, nella prefazione, coglie l’ardimento della parola della poetessa che non si esime dalla denuncia del dolore che spadroneggia, abita l’interno del mondo. Occorrre salire, capiamo, andare oltre, sollevarci, perché non ci afferri completamente e non ci sottragga la meraviglia del dono e della vita.

2 commenti:

Gabriella Ti ha detto...

stelline stelline per voi
il palmo si apre e si rischiara
luce per tutti

Gabriella Ti chiama Alessandro... ci sei??? batti un colpo

qui tutto serpeggia nel modo giusto
abbiamo contatto con Antonietta che presto parteciperà a Brussellando in Radio.
Narda mi ha scritto una poesia e già l'adoro anche lei intrappolata nella tela sonora
passo e chiudo

Flavia ha detto...

Lascio un commento per due buone ragioni: la prima sei tu, la seconda è la poesia.
Il tu, di cui apprezzo lo stile. La tua maniera di scrivere.
La poesia che hai riposto in questo articolo, affascinante e leggiadra, che si lascia afferrare con la bocca mentre cerca di riflettersi in essa.
Aggiungerò il tuo sito tra i link consigliati sul mio blog.

Torno a trovarti,
buona serata!