lunedì 28 gennaio 2008

Enrico Besso e gli Anni di vento

di Davide Argnani

Anni di vento è il certificato di identità di un libro di poesia assai originale e interessante. Indurre subito a fare questa constatazione è lo stesso titolo che rappresenta, se così si può dire, una unione di simboli capitali dell’Essere. Intanto perché il significato del primo fonema stabilisce il concetto di Tempo e quindi il senso enigmatico di finito-infinito, mentre poi il secondo suono di testata, il ‘vento’, ora sobrio ora capriccioso, ne è contraltare visionario dell’essenza in movimento. Un’opera che si legge tutta d’un fiato, senza distacchi o intercorrenze da testo a testo, in quanto tutta la raccolta è unica simbiosi poematica. La poesia di Enrico Besso contiene la suggestione di scavare, attraverso un proprio linguaggio personale, nell’anima e nella coscienza del sentimento negando ogni sentimentalismo. Attraverso la ricerca illuminante della parola e la riscoperta di un vocabolario frizzante, musicale, distillato, il poeta esplora senza ritegno il labirinto dell’inconscio prendendo atto della dimensione storica ed esistenziale nell’incrocio tra dolore e gioia di vivere fin dalla prima poesia del libro, che recita così:

Più forte già di me
del mio dolore,

nel cerchio di un inutile frammento,

il male, infame,

viene pronunciato a mezzabocca,

quasi sottovoce,

– che a dirlo forte forse ti contagia? –


Quando sorrido a cielo aperto al giorno,

nell’ora scarsa d’ambra del mattino,

il mio tumore appare all’orizzonte

s’accende lentamente

e mi riscalda.


La parola si dilata in un racconto di vita inframmezzato dagli eventi e dalle aspirazioni alte e cruciali:

Erano gli anni della pasta e sarde,
del falco pecchiaiolo in Aspromonte,

delle ginocchia sporche e spelacchiate,

del gracidare greve dei bufoni


(da Un ragazzo antico di Calabria)

e poi nella constatazione d’amore, il sentire profondo e sincero, pur nella dimestichezza costante del dolore, forte come nei canti d’amore del vecchio e sempre giovane J. J. Prévert, nei versi della poesia Nafta & Lina a pagina 50:

Eppur V’amo di questo amore immenso,
di questo amore tenero e pulito,

di questo sentimento senza senso

che par far da contorno all’infinito

Ma ancora i dilemmi e i demoni accidentali fanno di questo surrealismo polpóso, prégno di cromatica materia, un vero e proprio condensato di umana saggezza e coraggiosa rivolta contro ogni inganno. La parola, nella poesia di Besso, sembra scagliare pietre alla luce, pur nell’intensità d’amore che tanto sensibile s’innesta in un discorrere colloquiale da verso a verso. Ribellione e reazione al disincanto di un sogno che ha tradito ogni certezza o illusione. Insomma ecco un rapporto tra poesia, scrittura e vita, fra speranza e circospezione, disincanto e ‘chiaroscuri’ perché ‘nel falsovero è la verità delle bugie’ e il poeta non si adagia mai. La vita è dolore, è piacere, è gioia, è illusione e illuminanti utopie. In queste poesie ci sono grumi di vita ma anche quel senso di dissoluzione come spesso ci insegna l’opera di Vittorio Sereni, soprattutto nei suoi ‘strumenti umani’. Insomma l’avventura della vita è un frammento di sole, è una tempesta improvvisa che quando giunge mugghia come un toro infuriato colpendo qua e là senza requie, proprio come canta Giacomo Leopardi in questo suo ‘frammento’:

Pure il vento muggia nella foresta,
E muggia tra le nubi il tuono errante,

Pria che l’aurora in ciel fosse ridesta.

O care nubi, o cielo, o terra, o piante…



Anni di vento è un’opera che lascia sospesa ogni risposta ma che dimostra, in ogni parola, di voler affermare senza condizioni i valori profondi dell’anima umana anche se la certezza è sempre quella di un altrove, di un senso incerto della realtà che non è mai qui e ora ma fisso in quell’occhio tenebroso del Corvo di Edgar Poe. Ecco allora la misura di un tempo che è da essere, che sarà quell’infinito sconosciuto che una realtà avara e arbitraria ‘sbrinchia di rabbia anche il cielo’ e non lascia illusioni. Ma il poeta non si lascia incantare dall’ “immobile stagno” preferendo mormorare sillabe ‘coi duroni alle mani’ come ‘la vecchia contadina’ che “passa le ore e i giorni / a cardare la vita, / bisbigliando nel vento.”
Ci trovo Leopardi, la morte, e la vita, le pulsioni esistenziali che non danno tregua, spinte dal vento, e che significano amore, allegria, malinconia… Un’isola umana, concreta, saporosa, e una poesia impossibile da citare perché è una poesia da leggere tutta insieme, come un poemetto tragico, trafitto d’amore e di vita e squarci di luce e di gioia.
È una poesia di innovazione linguistica o comunque una poesia che resta appartata dai luoghi comuni della scrittura contemporanea, ma senza disdegnarla, ben disposta, giustamente, a conservare la propria autentica valenza. È una innovazione linguistica dettata, in notevole misura, dalle ricerche della massima naturalezza e possibilità di scatenamento dell’espressione verbale. Una poesia che coinvolge e allo stesso tempo ti allontana riportandoti a convivere con quella asprezza metaforica delle grandi passioni che sanno ben ponderare ogni sogno.
E il poeta ce lo confessa con la bellissima copertina azzurra del suo libro, un cielo intenso con nuvolaglie portate dal vento, scarmigliate, e il vento della vita, dell’esistenza, di umori e di amori. Anni di vento è un’opera che trovo rara sia per il linguaggio così magmatico che per la sincera disponibilità colloquiale del poeta ripulita di ogni retorica autoconsolatoria.


Enrico Besso è nato a Rivoli, in provincia di Torino, l’otto dicembre 1957, e attualmente vive a Catanzaro Lido, dove si dedica a tempo pieno alla gestione dei siti web: www.poetilandia.it e www.poetilandia.com. Nel 1991 ha pubblicato, in edizione fuori commercio, la prima raccolta di liriche dal titolo Cantando e quindici anni dopo, nel 2006, Anni di vento.

da Anni di vento di Enrico Besso

*

Più forte già di me
del mio dolore,
nel cerchio di un inutile frammento,
il male, infame,
viene pronunciato a mezzabocca,
quasi sottovoce,
– ché a dirlo forte forse ti contagia? –

Quando sorrido a cielo aperto al giorno,
nell'ora scarsa d'ambra del mattino,
il mio tumore appare all'orizzonte
s'accende lentamente
e mi riscalda.

*

Sorpresi a declinare amori stanchi, noi,
uomini di una stagione sola,
nel – fumo uccide –
ché la vita invece anche,
col capoufficio che ti tocca il culo
e tu che – non l'ha fatto apposta! –,
viviamo di candeggi in lavatrice,
un euro d'enalotto nelle tasche
e l'agenzia di viaggi nelle scarpe.

*

Smorendo al cigno della sofferenza,
il male, sgomita derive
e làcera cenacoli di sedie vuote,
prede intessute alla stessa ragnatela.

Poiché, noi, figli siamo di un’icona
– un michelangiolesco cristo in croce –.

*

S'annotta a strati chiaroscuri,
il giorno in fuga dalla cieca voce al muto sguardo,
sordo, all'onda immane,
traligna incerto nei sudari senza nome.

*

Scrivo a braccio, sul braccio,
o forse è meglio dire
ch'è il braccio che mi scrive,
spesso monco delle parole che non sa contare
– a undici si stacca –.
Sordo al ritmo
(non può essere altrimenti!) degli accenti
e muto in quarta, ben venga,
trapuntato in quinta.

Il poeta scrive coi piedi,
non tutti i poeti, vero,
ma la figura rappresenta il tratto
e a me, stasera, puzza la parola.

*

E lavala tu questa poesia,
con un riflesso assonico di luce,
un po' d'azzurro strappato dal cielo,
l'atarassia dell'animo felice.

Stendila nell'assolo di una stella,
sulle tre corde della balalaica,
tra le coccole rosse dei ginepri
e nel profumo della violacciocca.

Stirala a fuoco lento sulla brace
con lamine cromate di vibrafono
e infine indossala come calendula
sanguigna e vai controvento all'inferno.

*

In quell'andare a struscio muro d'ombra,
sfugge, tra un battito di ciglia e l'altro,
l'ora del giorno che si appresta a sera
e mi dolora, genuflesso,
l'ansia nel dormiveglia tra la pietra fredda
e l'incartare del sole
in persiane rigate a coltello dal vento.

Come il muso del cane, che mi somiglia,
scompiglio l'ombra a questa vita morta
nel segno dei miei denti sulla mela.

*

Di quell'ossuta mano a ravviare, lenta,
l'azzurrità del cielo, madre,
ho qui davanti a gli occhi il gesto stanco

e a mezzasera,
in questa attesa assurda della fine,
pare appoggiarsi, fredda, alla mia spalla.

Fuori, avanza svelto,
il passo silenzioso dell'autunno.

*

Dicotomie di amori in bancarella (un mazzo dieci euro)
e a calci e spinte e ghirigori farsi largo al cuore,
ché avvicinatevi signori, noi, svendiamo proprio tutto
anche quel misero pudore che ci resta.

Amori freschi, appena colti, sguardi che se prendi tre,
rischi di pagare mille volte d'averne lasciato uno
e poi sedie vuote e posti a tavola per chi non c'è,
non ci sarà mai più.

Solitudini, listini senza prezzo su ricordi stinti
come quei jeans che non ti vanno
e odio per le buste della spesa,
per le comari a contrattar lo sconto,
ché Marianeve, lei, non ha mai detto una parola
e cucinava bene.

*

Conosci questo passo lento, notte,
e la tua solitudine è la mia.

Come ortica di mare sfuggo l'onda,
quest'avido tempo senza memoria,
queste pietre che traspirano angoscia
e questa penna senza fantasia.

Ed io vorrei potere farmi foglia
per mordere l'acqua chiara d'ottobre
e diventare aeroplano di carta
per bestemmiare più vicino a Dio.

Dipoi disfarmi in rucola selvatica,
spicchio di limone agro nel the
e sabbia, sale, vento e infinità,
nel cielo che si fa di rame io ...

*

Sferza la pula al viso forte il vento
e di granaglie l'umido sapore,
tra vagolanti stelle dispettose,
nel cielo stinto con la varecchina.

Ti ho vinta ai dadi tanto tempo fa,
fuori pioveva l'acqua di settembre
e l'abbuzzire dell'età sul seno
già s'accosciava al buio della strada.

L'Italia – casachiesa di puttane
nel tuo parlare così tanto strano
e il pane nelle patte sbottonate
sapeva della casa in Albania.

Adesso non è facile spiegare
perché ti porto i fiori al cimitero.


Un soldatino blu

Papà, stammi vicino,
tienimi forte stretto a te,
ritorna insieme a me un po' bambino,
giochiamo ancora a fare il karatè.

Tu sarai Zorro ed io farò il cavallo,
con le pistole come quelle dei cowboy,
a Ciccio, il gatto, faremo fare lo sciacallo
e ai canarini nella gabbia gli avvoltoi.

Papà, non ho la forza di saltare…
sento le gambe senza peso, molli molli,
ho freddo… ed ho ripreso anche a sudare…
ti raccomando l'album con i miei francobolli.

Col trucco della mamma sarò il tuo capo indiano,
ti legherò a una gamba del tavolo in cucina,
col casco della moto diventerò un marziano
e la tua penna a sfera sarà la mia antennina.

Papà, non riesco più a tenere gli occhi aperti!
Papà, non posso più quasi parlare!
Papà, ora sei qui! Ora che posso averti…
sento una voce che mi chiama… devo andare…

Hai chiuso gli occhi, ora non soffri più
e il tuo papà rimane solo qui a giocare,
coi tuoi balocchi, un soldatino blu,
addio bambino mio… non mi scordare…


Un ragazzo antico di Calabria

Sul barroccino di frutta e verdura
incorticato all'angolo del corso,
lupini e fichi d'india scintillavano
nell'acquolina in bocca dei ragazzi.

Erano gli anni della pasta e sarde,
del falco pecchiaiolo in aspromonte,
delle ginocchia sporche e spellacchiate,
del gracidare greve dei bufoni.

Sfilava tra le case abbarbicate,
nell'aria di ricotta stagionata,
la processione con l'astile in testa,
ricordo il barbugliare del torrente,
i pantaloni corti e nelle tasche,
un piccolo confetto d'anicino.


Pescatori

Io non dirò di loro che dal mare vengono
e al mare, come bambini, vanno.

Non vi dirò del sale sotto sole,
degli occhi persi all'infinito,
dei lumi accesi a notte nelle case.

L'onda riporta sempre ciò che prende
e io non vi dirò di ciò che ho dato.

*

È un violino impazzito
l'urlo rauco del mare in tempesta,
la corda tesa nelle notti insonni,
quando la luna zoppa
sgrolla alta di luce opaca
la strada del ritorno.

Quanto fango su questa nostra storia,
quanti occhi di pianto al cuscino.

Lascia che il volo delle ciglia
baci la curva delle labbra,
che segua il segno oscuro
delle piccole rughe sul viso
e nel vento,
a riccioli scolpiti dalla pioggia,
gridalo forte il tuo orgoglio di donna ferita,
ché nel silenzio dell'alba
anche un richiamo può essere amore.


Il profumo dei limoni

E porterò con me il profumo dei limoni,
i cerchi intorno al fuoco a fine estate,
gli amici, i giochi, i cori, le canzoni,
i bagni a mezzanotte e poi le serenate.

Li porterò con me quei vetri colorati
e quella casa bianca in riva al mare,
il canto dei delfini innamorati
lo porterò con me, non lo potrò scordare.

Avevi gli occhi al cielo a far l'amore,
la prima volta sotto gli ombrelloni
e ci batteva forte forte il cuore,
tra l'onde di granito senza suoni.

Pelle brunita tra i capelli un fiore:
sabbia, sole, mare e il profumo dei limoni.


Anni di vento

Erano gli anni di cose proibite,
dei primi turbamenti, i primi ardori.
Anni di mosca cieca e margherite,
dei baci di nascosto, i primi amori.

Erano gli anni a balli stretti stretti,
di cuori sul diario e di colori.
Anni di banchi a scuola, di biglietti:
– dopo la campanella aspetto fuori. –

Erano anni che non puoi capire,
guance di mele rosse, d'oro e argento.
Anni che non potranno più venire,
parlano sottovoce e io li sento.

Ora che si avvicina l'imbrunire,
penso a quegli anni miei,
anni di vento.

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