mercoledì 19 settembre 2007
3 poeti a Milano 21-9
Tre poeti di Invetriate: Marotta, Sannelli, Monreale
Venerdì 21 - ore 21,00
Centro Culturale San Carlo - Corso Matteotti 14, MI (MM1 San Babila)
a cura di Fabrizio Bianchi e Adele Desideri
presentazione dei primi 3 volumi di poesia della nuova collana «Le invetriate»
Edizioni Il crocicchio/inEdition
Daniela Monreale, L’attracco sulla luna
Francesco Marotta, Per soglie d’increato
Massimo Sannelli, Nome nome
Interventi critici di
Adele Desideri, Gabriela Fantato, Luigi Metropoli, Luigi Cannillo
Francesco Marotta
ore di bassa marea
a osservare le stazioni
del respiro, il vento
infetto di gioie sottotraccia,
la cifra allusiva dell’esilio
nel fuoco che suona senza peso
sui giardini e si riassetta
in corpi miniati
dentro ampolle di stupore: –
non è senza mattino l’onda
brunita di fiori di risacca,
né senza fiume la stella
di ponente che si compie
nel lampo dell’ultima vela –
testimone del seme
immortale per un attimo
prima di esplodere alla luce
il suo carico di gemme,
di lieviti, di sangue
Dalla Postfazione di Luigi Metropoli a Francesco Marotta, Per soglie d’increato
Sapienza e profezia, parola e visione, «pensiero e canto», queste le coordinate che tracciano la sfuggente spazialità di Per soglie d’increato. Lo scintillio, il chiarore del pensiero, si fonde con il baluginare, il barbaglio, le «epifanie di lumi»; il dialogo (che in sé contiene per residuo etimologico il logos, la razionalità) incontra lo stupore, estatici squarci che aprono «il varco al volto / irrivelato delle cose».
La poesia di Francesco Marotta ci conduce laddove la parola germoglia, attraverso zone d’ombra, fino ad una luce albale che si articola alle soglie del vuoto. È in questi luoghi che lo schiudersi delle prime sillabe acquista sapere, sapidità, sapienza, in tutto il suo urto rivelatorio, «che dissigilla / un senso che non dura». Il poeta ne ripercorre la traccia in un cammino a ritroso, attraverso un inventario di visioni, specchi, labirinti che vanificano la direzione. A tratti, per brevi istanti, sembra si possa cogliere in questo percorso una rivelazione, un qualche barlume di verità. La poesia rincorre la profezia, nel suo anteporre la parola (profferire: effare e fato che si specchiano vicendevolmente), nel suo partorire una visione futura il cui senso risiede nel passato, «prima di ogni dire, / prima del silenzio».
A fare da guida sono spesso delle figure angeliche, figure intermedie di raccordo con una dimensione altra, il punto di contatto, in cui la lucidità di visione si risolve in luce-abbaglio, miraggio (chiarità e oscurità coincidono), la veglia in sonno, la ragione in investigazione plurisensoriale delle cose, il pensiero in canto, la parola in sguardo-movimento.
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Massimo Sannelli
dov’è la madre diversa, parte,
tra i figli sopportare questa
solitudine lunga, allora è fatto
sfregio; dietro è fatta
esperienza e luce; certo è giglio.
chi credete io sia? ti aiuto, spiega, con
la mancanza fiera, aiuto - le roi
dissociarsi, le roi urlare, così
in fretta anche, dalle due mani,
separare, oh, sassi, strumenti, colpire:
il popolo a cui si è fatto; e fa
vento innocente questo, nei
rumori; ché corre vento.
Dalla Prefazione di Marina Pizzi a Massimo Sannelli, Nome, nome
Solitudine mistica della parola ancorata all’effigie del corpo, parola presa in/a poppa per un’evanescenza di/nonostante il teschio del sale che per adesso è carne colma di ascolto.
Qui, in questi versi quasi dimentichi in presenza, prende la commozione del bianco, il coma di una madre sempre evocata quale una cascata senza mare né gioia di golfo.
L’infanzia, questa e quella falena di iato, fannullona di tutto: nulla nel pieno addobbo del cassetto sventrato addirittura e solo da un sassetto.
Scrosci d’acqua arsi dalla prima cintola di un qualsiasi Gigante cattivo contro una madre buona botanica di bacca, candore del crollo del tempietto.
Piange, Sannelli, nel sisma ondulato e ondulatorio dell’essere venuto dal seno; è un pianto secco, secco stato di mancamento, mancanza di Lei la donna di madre che lo nacque e lo interra senza farne, farsene, fargli, farlo con peso di oppressione.
È l’ombra del senso e del suono abili atti a dar vita, nuova vita, sempre vita, al poeta che, in più o in meno, non sa mangiare, non sa nemmeno mangiare… la fame è enorme eppure si contrae quasi in aborto.
Il cristianesimo delle singole parole possono il senso e il segno dell’acqua natìa, mai bastante contro il basto di spartirsi, ma appallottolato, per vivo e morto nell’insieme del rantolo tutto ossigeno, e viceversa.
«capisci che l’infanzia è meno
propria; con lealtà che non
dirige;
nato maturo, nato torre, diffusa
in uno cielo».
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Daniela Monreale
Brixen, sei anni dopo
Inenarrabile
ai più che sorvolano la friabile bellezza
– questa tellurica bipenne al Cielo questo Duomo
ai piedi della Plöse, come sei anni fa dicevo
in una poesia esangue e colorata al buio –
ancora eretta la traccia di un disegno
mi attraversa.
Mi suggerisce che tu stai vicino a questo
morso di gioia, lo mangi d’amore insieme a me
che divoro.
E la navata percorro albata di un barocco
ormai familiare, ammansito da un organo
che ha un gusto sferico,
la ruota perfetta del Canon di Pachelbel,
quando adolescente avevo in testa
grolle di mani e bocche acuminate,
rosse a metà, sparpagliate come coriandoli in festa,
adesso un imprevisto coup de foudre mi sorride,
ho il cerebro assediato ho la tua foto sul comodino,
qui è la nostra geografia qui è la scena
che non registreremo nella piccola camcorder,
dicono in quattro,
dicono i nostri occhi serafini.
Dalla Prefazione di Gabriela Fantato a Daniela Monreale, L’attracco sulla luna
Quest’ultimo libro di Daniela Monreale è una sorta di canzoniere della gioia, nato da un incontro amoroso che svela però come per la poetessa toscana l’amore non sia solo incontro con l’amato, bensì condizione originaria dell’umano che, svelando il senso antico e ancestrale della vita, conduce a noi stessi e ci fa partecipi del mondo.
Leggiamo, infatti, in apertura di libro che le poesie sono dedicate «a S. che mi ha cambiato la vita», ma i versi – sempre fortemente ritmici, allitteranti, con assonanze e a volte rime – si compongono in un viaggio iniziatico dove con lievità si intrecciano tensione erotica e slancio mistico.
Ed è come se i versi della Monreale scaturissero con potente naturalezza da una pratica di vita che li ha mischiati e dunque rivelati nel loro essere inseparabili facce della vita. Questa, infatti, per la poetessa, si svela a noi quando riusciamo a sentire che il nostro Essere più autentico è nel nostro «esser corpo», nel nostro abitare il mondo come corpo e venire modificati dall’incontro con la concretezza delle cose, avvertendo però l’infinito dentro le pieghe della vita stessa, che è come un fuoco che arde e ci sfugge se la interroghiamo solo con la ragione. Ecco perché è dentro l’amore di un corpo amato che si apre la strada per la conoscenza di se stessi e del segreto della realtà intera, come leggiamo nei versi di Qui e tutto: «Sembra un cosmo tascabile / la mia stanza la mia testa / anche senza pace / sembra un āshram con la luce sempre accesa / e l’attesa infinita il desiderio la paura / l’eterno sbigottimento / in un mini appartamento / mi perdo mi ritrovo / mi rotolo nel cerchio».
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