mercoledì 24 gennaio 2007

Oltre l’ermetismo (di Luigi Metropoli)


Zanzotto appartiene, secondo Mengaldo, «a un filone orfico-sapienziale e attraverso la poesia intende affermare niente di meno che una verità in qualche modo trascendente». [1]
Il nesso tra i primi lavori di Zanzotto e le successive acquisizioni stilistiche e formali è da ricercare nel sostrato ermetico che, stando a Mengaldo, è stato riformulato e «investito della curiosità gnoseologica» [2] del poeta. Il percorso dell’autore solighese non presenta, pertanto, una frattura improvvisa e inaspettata all’altezza di IX Ecloghe, ma si dipana come un continuum, tenuto insieme dall’orfismo mai completamente sopito.
La lettura proposta da Mengaldo sottolinea lo stretto rapporto che intercorre tra il modo di intendere e di fare poesia di Zanzotto e la matrice ermetica delle raccolte successive a Vocativo. Se, da un lato, questa lettura è riduttiva della singolare evoluzione stilistica del poeta veneto, dall’altro ne sottolinea la coerenza.
È innegabile che il cammino di Zanzotto abbia subito una svolta, deviando verso soluzioni «avanguardistiche e informali». [3] Ciononostante il poeta veneto non ha perduto le proprie radici liriche e continua ad attribuire alla poesia il potere di far emergere la verità. Per Zanzotto la poesia reca in sé qualche velata traccia dell’origine, è sempre in stretto contatto con il limite, evoca sempre qualcosa che va ‘al di là’.

La poesia per me continua ad essere globale, totale, e quindi si può dire metafisica, in quanto urta sempre contro il limite. [4]

Questa dichiarazione rimanda, per affinità, a Montale:

Tutta l’arte che non rinunzia alla ragione, ma nasce dal cozzo della ragione con qualcosa che non è ragione, può anche dirsi metafisica. […] (Meglio che di poesia metafisica potrebbe parlarsi – per una parte della poesia moderna – di una poesia che trova in se stessa la sua materia). [5]

L’orfismo di cui parla Mengaldo non va inteso come un adagiarsi sulla parola ‘innamorata’, ma come un tentativo di sondare il margine della realtà fisica per approdare ad una realtà altra. Questa lettura trova conferma nelle parole del poeta solighese, nella sua definizione di poesia «metafisica» come necessità di andare oltre, di valicare il limite. Occorre riportare il seguito di tale affermazione:

La mia [poesia] non accentua il lato metafisico in sé; forse introduce, come spesso avviene, una nota metafisica nella fisicità, un sentimento di «sospensione interrogante». [6]

La «sospensione interrogante» di Zanzotto è anche il rischio, per la poesia, di perdersi nel suo cammino di ricerca, di arenarsi nel labirinto di un mondo mai troppo conosciuto. La poesia è, dunque, un tentativo estremo di ricerca della verità per sentieri ignoti:

questo andar oltre dà sempre nuovo, più profondo senso all’origine e a tutto l’insieme. E ciò con una fiducia, ancora una volta alla Münchhausen in un’operazione priva di qualsiasi garanzia. [7]

Per Zanzotto l’andare oltre coincide con un tornare all’origine, con un prima, pertanto il suo procedere è un andare a ritroso, un recedere. Il prima ha un rapporto privilegiato con la purezza e con la verità e nasconde la ragione del nostro esistere e del nostro essere nel mondo.
La poesia opera con le parole ed è solo tramite esse che il poeta può «preludere a una vera-mente / a una vera-vita» [8]. Zanzotto intraprende questo percorso grazie al linguaggio, ma, soprattutto, lo intraprende al suo interno. Questo procedere all’inverso, in direzione dell’origine, induce il linguaggio stesso a ripercorrere la sua intima struttura per verificare la possibilità di approdare al significato unitario. L’unica condizione, per cui questa possibilità si verifica, è l’esistenza di un legame diretto tra linguaggio ed essere.
La funzione simbolica del linguaggio, dunque, dovrebbe prevedere la rispondenza diretta tra il segno linguistico e il suo referente. Il referente, nel caso specifico, è l’essere o, altrimenti detto, una realtà precedente al principio d’individuazione, indistinta, nella quale non sia ancora avvenuta la separazione che ha determinato la formazione delle cose.




[1] P.V. Mengaldo, Grande stile e lirica moderna. Appunti tipologici, in La tradizione del Novecento. Nuova serie, Vallecchi, Firenze 1987, p. 19.
[2] Id., Il linguaggio della poesia ermetica, in La tradizione del Novecento. Terza serie, Einaudi, Torino 1991, p. 149.
[3] Ibidem.
[4] F. Camon, Il mestiere di poeta, [intervista rilasciata da A. Zanzotto nel 1965], Lerici, Milano 1965; cito da A. Zanzotto, Poesie e prose scelte, Mondadori, Milano 1999, p. 1133.
[5] E. Montale, Dialogo con Montale, in Id., Sulla poesia, Mondadori, Milano 1976, p. 581.
[6] F. Camon, Il mestiere di poeta, p. 1133.
[7] Ivi, p. 1134.
[8] Possibili prefazi o riprese o conclusioni I, in La Beltà, p. 280.

(Luigi Metropoli è un appassionato di poesia e acuto critico letterario, il suo sito – dal zanzottiano nome: Vocativo – è linkato a fianco)

11 commenti:

Simone Lago ha detto...

Molto preciso Luigi, come sempre, nei discorsi zanzottiani. Il rapporto con la psicanalisi lacaniana dalle ecloghe in poi si fa aperto e la ricerca dell'origine diventa ricerca dell'atto fondante del sé e studio delle possibilità del simbolico. Già il "simbolo" è altro da sé, rappresentazione; l'arbitrarietà del segno, gli slittamenti metonimici, sembrano mostrare in Zanzotto una certa sfiducia nella lingua come strumento di indagine dell'essere, e quindi la distanza irriducibile fra ragione ed essere. Qui, a mio parere sta l'orfismo residuo del poeta, nella velata dichiarazione dello iato fra l'uomo "sociale" (costituito dall'incontro col simbolico e quindi col linguaggio) è il "vero". L'uomo, secondo Lacan, nasce alienato, in quanto la determinazione del soggetto avviene in un "altrove" da sé, e Zanzotto a parer mio si sforza di estetizzare questa separazione originaria operando un oltraggio del sistema lingua, sottolineando l'inganno originale (il paragone col "peccato originale" non è a caso: l'incontro col simbolico -per lo psicanalista francese- avviene nel momento dell'incontro col nome-del-padre, che ha una funzione privativa sul bambino-narciso che nei primi stadi dello sviluppo gode incondizionatamente dell'attenzione materna (paradiso terrestre).

I miei 2 cent :)
Un caro saluto a Luigi ed a Alessandro.
Simone

Luca Ariano ha detto...

Davvero interessante questa (ri)lettura di Zanzotto. Complimenti!
Un caro saluto

MimmoCangiano ha detto...

molto interessante, e a mio modesto giudizio tutto giusto. Il valore del linguaggio, e con esso del nome, è primigenio. Ciò che si perde nella frantumazione della modernità è innanzitutto il nome (Il nome di Maria Fresu) che scoppia e viene poi dimenticato.
Ma, al di là di Zanzotto, mi chiedo se davvero sia possibile risalire a un prima del principio di individuazione (a prima dello smembramento del corpo di Dioniso), al "legame diretto tra linguaggio e essere", o se non sia più giusto, come credo, ammettere con Hebbel e Simmel una contraddittorietà intrinseca della vita che crea da sè le forme che le sono indispensabili ma che "per il solo fatto di essere forme (simbolizzazioni fittiziamente unitarie) sono intrinsecamente contrarie al dinamismo e alla mobilità della vita stessa?" Pur tralasciando la moltiplicazione linguistica (e di conseguenza la moltiplicazioni dei pensieri e degli "essere", ma ammettiamo pure che la relazione sia doppiamente determinata), abbiamo davvero bisogno di "autentico" per agire nel mondo? O è il bisogno di "autentico" che è fonte delle più grandi barbarie della storia? Oggi è anche il giorno della memoria, riprendo l'analisi che fa Steiner "Nel castello di Barbablu": sterminio degli ebrei come sterminio di coloro che avevano creato un'astrazione inaccessibile, in questo senso un attacco alla perfezione impossibile, ma anche una nuova creazione della possibilità di una trascendenza (l'inferno reso immanente) in una sua forma parodiata.
voc, tu stai facendo riferimento ad una concezione "tragica", al vero centro del tragico, ma mi chiedo, collegandomi anche a quanto si dice nell'editoriale del nuovo Faranews su Kierkeegard, il tragico non è solo uno stadio di passaggio? non è anch'esso mobile? e non è dunque, in ultima analisi, solo un momento dell'ironico e non viceversa?

mimmo

Alessandro Ramberti ha detto...

La discussione si fa interessante: poetica o filosofia del linguaggio? Affascinato fin dalla adolescenza dai "meccanisimi" linguistici e simbolici, mi sono venuto a convincere della ineludibilità della "rete" linguistica per la costruzione di una consapevolezza del nostro stare-al-mondo inteso in molti sensi: viverci, agirvici (si dice?), individuarvisi, posizinarvicisi. Come ho detto altrove la forza simbolica, performativa e orientativa della lingua sta nel suo essere un schema condiviso ma indefinitamente duttile e tendenzialmente dunque "poetico", id est metaforico e polisemico e questo sia a livello lessicale (di architettura) che sintattico (diurbanistica), ma già a partire dal livello fonetico (dei mattoni) e morfologico (diciamo di una stanza che ha un suo "uso" o "funzione" principali. Questa elusività e fuggevolezza del materiale linguistico viene "controllata" dal livello razionale e sociale, della norma, chomskyanamente della forma logica e di quella profonda, in modo che certe oscillazioni di senso sono tollerate, certe diverse pronunce pure… il tutto è in un equibilibrio dinamico… insomma il sé, o Dio, o la fede resteranno sempre un mistero, ma se ne può parlare
(ho fatto abbastanza confusione? ;)

Paola Castagna ha detto...

Si Alessandro la tua confusione contagia la mia già alta
"Per Zanzotto l’andare oltre coincide con un tornare all’origine, con un prima, pertanto il suo procedere è un andare a ritroso, un recedere. Il prima ha un rapporto privilegiato con la purezza e con la verità e nasconde la ragione del nostro esistere e del nostro essere nel mondo."
L'andare oltre resta assente, lo scrivere per consentire a quel rimosso di non restare tale.
La fragilità che esiste per quella luce che riflette l'Essere.
L'essere che diviene, nel viaggio a ritroso, animale a cui dare una parte.
Nello stesso viaggio chiedersi se effettivamente ne valeva la pena dovere riviversi addosso per una seconda volta.
Dove viene posta la logica di proseguo?
In un baratro che risale perchè oltre vi è il nulla, trovi la certezza di un respiro che senti sul collo.
Eccoti il mio Caos, creatore della Terra, eccovi Alessandro, Vocativo.
(Alessandro hai da fare il prossimo fine settimana?)

Paola Castagna ha detto...

Più che invitare...mi necessita essere invitata.( aria che necessita)
A riferimento del tragico compio lo sforzo del considerare la Tragedia talmente individuale da risultare non comprensiva dall'esterno.
Ma è domenica mattina se il buongiorno mi riporta a parole sanguigne attendo lo scioglimento di un giorno lento.

MimmoCangiano ha detto...

Capisco Voc, e l'ironico è probabilmente davvero un fondamento, ma un fondamento assurdo. E' proprio come la meta finale della filosofia di Kierkeegard, che, in questo senso, non è solo religiosa, ma è, per l'appunto, ironico-religiosa (bloccare la mobilità dell'esistenza nel fondamento può essere una soluzione ironica, sto ovviamente facendo riferimento al saggio Soren Kieerkegard e Regina Olsen de L'anima e le forme di Lukacs).
Rispondo si e no alla tua domanda finale perchè credo che il tragico non possa avere "atteggiamenti", non possa averi momenti interni, il tragico deve essere qualcosa di ultimo, altrimenti non è. E questo è infatti l'unico punto di contatto fra i due grandi "sistemi" del tragico, Hegel e Schopenauer: nel primo il tragico è solo un momento interno della dialettica , il tragico è l'insuperabilità dell'antitesi, ma la contraddizione è poi eliminata dal movimento stesso che l'ha posta, nel secondo il tragico è un che di ultimo proprio perchè in esso viene annullata la dialettica.
quindi se l'ironico è, e probabilmente lo è davvero sia chiaro, un atteggiamente del tragico, vuol dire che non c'è tragico, cioè, di nuovo, che il tragico è un atteggiamente dell'ironico.

mimmo

MimmoCangiano ha detto...

Dimenticavo: ovviamente non sto dicendo che Zanzotto la veda così, nemmeno Holderlin del resto la vede così :)

m.

Alessandro Ramberti ha detto...

Ciao Paola vieni giù da queste parti? Magari ci sentiamo domani. Luigi e Mimmo non hanno minimamente "considerato" il mio post parzialmente antiwittgensteiniano e per punizione dovranno lasciare almeno tre commenti ciascuno relativi alle poesie che hanno inagurato questo spazio (la punizione è davvero terribile lo so, solo Paola vi si è sottoposta :)
Ciao a tutti e continuate perché la discussione su assurdo e tragico, fra lingua magica e lingua tragica, fra lingua possente e lingua estraniante è davvero interessante. Dunque buona continuazione!
Alex

Paola Castagna ha detto...

Grazie del riconoscimento, avrei voluto entrarci meno, ma nel tragico abbonda di ogni...tranne l'ironica dimensione.
La casa dell'essere così definita delimita chiudendo creando la Tana.
Senza andare a vuoto è solo che l'ultimo stadio
"Di sicuro è una sproporzione di forze per la quale qualcuno soccombe,"
Sfido, anche Luigi, a portarmi una consapevolezza che nel "durante" si sa ciò che avviene.
La tragedia parte unica dell'essere, compare dopo il grande di un positivo, per bilanciare e togliere futili illusioni di un Eterno.
Ti, Vi allego poche righe scritte ieri per un vuoto senza parole.

Fosse un rimosso
avrei tregua nel presente
mentre labbra
sospese
in gioia dopo amplesso
concede tutto
fosse un rimosso
non sarei qui

invece
l’utero scoppia
con esso
mi graffio una mano
dimenticandomi le unghie lunghe e dure
volutamente infliggo

fosse rimosso
ti ricorderei nel domani
formazione femmina
di una sessualità assente
ripugnanti immagini
mi fustigo
fosse un rimosso
non sarei qui

cerco quel coperchio
di una pentola
per rimetterlo
e anche se irrisolto
il momento era più sopportabile
non sei un rimosso
hai tra le mani quel coperchio
che non metterai mai
ad una pentola
che come un utero
bolle
mentre compio gl’ anni
la posizione da embrione
non basta
per non pensarti.

Fosse un rimosso
non sarei qui.

MimmoCangiano ha detto...

Alessandro, avevo "considerato" il tuo post ma non avrei potuto dire molto di più che "sono d'accordo".

Ovviamente che se ne può parlare, Wittgenstein, legato alla necessità di una conoscenza in senso "forte" diceva di conseguenza di no, ma io non ho mai avvertito questa necessità e ho sempre considerato la "norma", il "come sè", il funzionalismo, come il vero "essere".

Ma immagino che questo ormai fosse chiaro, tendo a ripetermi :)

mimmo