Evgenij A. Evtušenko, Se tutti i danesi fossero ebrei, Lamantica Edizioni 2022
recensione di AR
Il distico posto a titolo di questa recensione è tratto da un canto della Principessa (Quadro XIII, p. 214) che, all’inizio di questo stesso Quadro, afferma: “La storia è donna. Ma cosa fanno con lei gli uomini? La violentano sempre più. E tuttavia, perfino violentata, essa a volte genera splendidi figli” (pp. 206-7).
Quest’opera teatrale, splendidamente introdotta da Francesco De Napoli, è piuttosto complessa per via dei salti temporali e dei vari personaggi interpretati dai medesimi attori ma risulta di grande impatto perché rappresenta tipi umani e situazioni (persecuzioni, guerre, torture, ambiguità del potere, banalità del male…) che anche in questi nostri giorni non sono affatto mosche bianche.
“Niente è più sospetto della generosità…” dice il Colonnello (Quadro XII, p. 204) che precedentemente (p. 198) aveva sentenziato: “La paura è il grimaldello più sicuro per l’anima, specialmente la paura del dolore. È addirittura più forte della paura della morte. La paura del dolore apre qualsiasi bocca molto più facilmente dell’amore”. Mentre qualche pagina dopo (p. 201) il Maggiore afferma gattopardescamente: “Nel nostro paese siamo ormai abituati a un sistema monopartitico, ma è possibile adattarsi anche a un sistema pluripartitico… Tanto, in fin dei conti, solo un partito governa il mondo: il partito del denaro.”
La Principessa rinchiusa nella Torre Azzurra confessa sconsolata (Quadro XI, p. 186): “Bisogna trascinare la propria vita, come un baule, dal quale non puoi eliminare né il passato né il presente.”
Nel Quadro X il Maggiore esprime alcune considerazioni provocanti: “Al mondo non ci sono stati ancora ordini per i quali non si siano trovati esecutori.” (p. 170); “Un omicidio compiuto dal singolo si chiama delitto, quello compiuto spalla a spalla con altri uccisori viene detto eroismo.” (p. 177).
È altrettanto smascherante una certa facile propensione alla condanna (degli altri) questa considerazione dell’Uomo col candeliere (Quadro VI, p. 139): ”È crudele la facilità con cui i posteri, sacrificatesi in nulla, accusino di insufficiente sacrificio le vittime di tempi terribili.”
E abbiamo il Capo carceriere (Quadro III, p. 124) che si rivolge con freddo pragmatismo alla Principessa con queste parole: “Il potere ha bisogno di chi sa sbagliare insensatamente e pentirsi ragionevolmente.”
Nel Quadro precedente (p. 113), Testa con berretto ci spiattella papale papale: “Io penso che qualsiasi orrore sia nostro… Non ci sono orrori altrui. Tutti i passati orrori sono nostri e anche quelli futuri lo saranno… E quelli odierni tanto più…”
Una pièce che tratta temi forti con apparente distacco e cinismo (che è quello ovviamente dei personaggi), una lingua, quella di Evtušenko che non edulcora ma espone i vizi del potere, l’orrore del male, la propensione al quieto vivere che può rasentare l’ignavia, come pure il bisogno di relazioni “smascherate”, di sentimenti autentici, di un amore misericordioso che possa salvarci dai vuoti e dai baratri esistenziali, la necessità di una fratellanza, di uno sguardo empatico perché nessun uomo è un isola (e qualora lo fosse sarebbe un mostro) e solo assieme si può affrontare l’assurdità del male. Come scrive Francesco De Napoli (pp. 74-5): “L’assurdo è dato dai castelli di nequizie e di prevaricazioni a cui tacitamente sottostiamo nell’illusione di salvaguardare il nostro quieto vivere (…) Ma contro l’assurdità del male – ammonisce Evtušenko – sempre deve trionfare la fiducia nel domani. Perché uan speranza esiste, sia pure remota. La cultura può, e deve, trasmetterci questa fede. Tutto il resto è barbarie, fanatismo, menzogna, ignoranza.”
Notevole la traduzione di Evelina Pascucci, amorevole e competente la cura di Lorenzo Gafforini che ci ricorda come questa risulti la sola pubblicazione in forma di libro (cfr. p. 238), essendoci ad oggi solo una pubblicazione del testo su una rivista russa «Druzhba Narodov» (1996, # 7, pp. 81-109).
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