Massimiliano Bardotti, La disciplina della nebbia, collana «Portosepolto» a cura di Luca Pizzolitto, peQuod 2022, Prefazione di Antonella Sbulez
recensione di AR
”Sacra mi è la tua presenza pari alla tua assenza / sacro ogni dolore e la radice che lo nutre.” (p. 73)
Questo distico ci mostra in sintesi la poetica del Nostro, attento alla profondità e all’altezza, capace di venire fuori di sé con un abbraccio che dona e accoglie, disponibile a soccorrere e a chiedere/ricevere umilmente aiuto, desideroso di lodare e servire nello stesso tempo: “benedico la speranza fatta viva nell’assenza / benedico la più alta forma d’obbedienza.” (p. 65); “Per mano, il poeta / guida chiunque / afferri la sua mano.” (p. 64); “Poiché non vedo / nell’Infinito / un esito che alla fine sia male / che non sia benedizione.” (p. 56); “Fai del tuo cuore un luogo accogliente / dove molte persone possano abitare.” (p. 52).
Possiamo dire che la vita per Massimiliano è poesia, e la poesia è dunque leggere la realtà, le relazioni umane, il rapporto con il creato mettendosi nelle mani del Creatore che dona a ciascuno dei talenti, talenti che sono fonte di gioia e di responsabilità: “Ho premura per tutto quello che finisce. È il finale che lascia la sua scia perenne nelle cose. (…) E ci siamo immersi e ci chiama, dice i nostri nomi, vuole essere dichiarato. Dobbiamo preparare un giaciglio sul quale possa riposare.” (p. 48). Come si evince da quest’ultimo brano, la raccolta è intervallata da testi in prosa, quasi a dirci che la musica del verso “arriva” se parte da una una concretezza nuda, diretta, papale: “Bisogna essere vulnerabili per sentire come nostro il dolore di un altro. Ci vuole l’educazione della malinconia, e una predisposizione a piangere. Se non siamo più umani è perché ricuciamo le ferite troppo strette e troppo in fretta, non le lasciamo respirare.” (p. 47). Del resto è: “La disciplina della nebbia, che educa lo sguardo all’Oltre.” (p. 45).
Quando ci rendiamo conto che le cadute e le tentazioni possono essere humus perché la grazia possa operare, non possiamo che sentirci preziosi, gioielli piccoli, ammaccati e imperfetti, ma inestimabili e amatissimi e allora anche una porta invalicabile “diventa leggera e si apre da sola” (p. 37), il nostro lavoro esprime “l’opera di un Dio innamorato / che nulla serba di sé, se non il dono.” (p. 36).
Inevitabile allora porci le domande di peso. Considerare il nostro esito mortale. Essere provocati da una voce che afferma: “Io sogno di morire”. E Massimiliano continuando questa icastica poesia a p. 32 così (fraternamente, fiduciosamente) continua: “Ho percepito l’intensità / di ogni parola, / l’importanza di pronunciarle / come dipendesse solo dalla musica. // Cantare parole capaci di resuscitare.”
Potremmo scolpire questi versi, tatuarli nelle caverne del cuore, farli risuonare esultanti insieme ai seguenti ad essi strettamente collegati: “Non è più tempo di restare sulla soglia / fra il seme intatto abbandonato sulla pietra / e quello sotterrato, che germoglia.” (p. 31); “Bisogna essere prossimi alla terra / avere già nel corpo l’ambizione della fossa. / Sentire nella carne l’appassire delle ore. / E come si fa urgente fare il bene / (…) / che in fondo vivere è coltivare / il seme eterno dell’attesa.” (p. 27).
C’è una patente onestà, un grato sentirsi “misericordiati” come dice papa Francesco: “Ditemi che la intuiamo, la presenza di un amore antico che tutto ha preceduto, che tutto rende manifesto.” (p. 21). Un sentirsi circondati, nonostante il male, la sofferenza, il mysterium iniquitatis, da una bellezza/bontà che vibra e ci sorprende poeticamente: “Sapere che Emily Dickinson ha incontrato un castagno durante una passeggiata e che questo le ha fatto scrivere in una lettera mi è parso che i cieli fossero in fiore. (…) Sono così grato per questo, pensare che Dante fu allattato, Rumi partorito. Che la creazione non ha potuto fare a meno dei poeti, di chi non riesce a rinunciare, per alcun motivo, al canto. // Per questo, tutto malgrado, ho fede.” (p. 14).
Sì quest’opera è veramente poesia, in sublime tensione fra la gratitudine e la deontologia, perché: “Ogni vero poeta è un asceta.” (p. 15).
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