venerdì 21 ottobre 2011

Su Suture di Luca Artioli

recensione di Marcello Tosi

Aprendo la raccolta Suture di Luca Artioli (Fara Editore), si trova da subito la parola “Rúach”, in ebraico ‘il vento’, ma anche lo spirito, il respiro, forza di vita. È ciò che l’autore definisce “la poesia come resilienza”, capacità di riadattarsi, di far vincere la propria interiore resistenza. Versi composti “in nuce”, perché come nella “dedizione di un mosaico”, sono le parti di un ininterrotto discorso “nei giorni a venire” sulla poesia, con colei con cui “da sempre mi cimento / in desiderio e conoscenza”, come dicono i versi di Mario Luzi posti in apertura.
La poesia appare da subito come oggetto di fede, “atto lucido e sottointeso / - dimentico di restituzione -”. E cronaca di una vertigine, questo muovere alla ricerca per trovare ogni nome alle cose, “l’Omega” che è incisa per sempre “sulla roccia della poesia”. “Fragili apparenze”, queste del poeta mantovano, che va cercando “tra decisioni e incertezze, le stabilità e le oscillazioni di idee e figure”, ha scritto Alberto Cappi.
Per il grande Jack Hirschman: «Luca Artioli, alla veneranda età di 35 anni, crea una poesia che è al contempo saggia e piena di velenosa grazia, la cui musica – sorprendentemente potente e che scaturisce dallo scontro dialettico tra il silenzio e la parola sonora composta – ne fa un poeta capace di udire le profondità offerteci dal linguaggio di oggi.»
Un autore, Artioli, che ha camminato nella Beat generation a fianco di Kerouac come sottolinea Massimo Sannelli nella prefazione, e che disegna pertanto il suo “tragitto senza argini / - oltre il contatto dei binari -”, che ha per confini solo quelli individuati come poetiche “mappature terrestri”: da Cuba a Piazza del Campo, da Volterra alla piana di Spoleto, dalla Val d’Orcia al mare d’Abruzzo, a Fonte Avellana (“Origine che neanche il tempo terrestre / poteva ricucire dell’uomo se non / per un contatto, un travaso…”).
La percezione lucida della fuga che rapisce controcorrente, che conduce oltre ogni spazio, ogni tempo, muove alla ricerca di quel nuovo senso di tutte le cose promesso. E sono poche, poche le parole, di questa lingua che è metà di noi, fatta per non dire, per non essere. Per perdersi nello stupore del principio, nella costruzione di un verso che mai ritorna senza riserve, incolpevole, perché fatto per donare il perché del tempo, della storia: “Ogni cosa è come vetro / e solo un graffio / in superficie”.
Punti, per ricordare il senso del non dire, per creare una sospensione che galleggia e accende l’aria, colma dello “stupore inatteso del se”. Nel Verbo che lento germoglia, dalla vena sulla lingua, sgorga “il sangue del patto… Parola più grande non puoi essere che Perdono”.

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