giovedì 24 dicembre 2009

Abitati dentro da un paese e da una valigia. Le storie minime di Maria Pina Ciancio

La casa dei doganieri
Rivista di libri, lettere, arti – Anno II numeri  2-3, Firenze maggio dicembre 2009
Direttore responsabile: Vincenzo Crescente, lacasadeidoganieri@alice.it



La sensibilità di Anna Ventura interpretò il tema del distacco in questi termini: “Non chi parte ma chi resta parte davvero”. Maria Pina Ciancio, al contrario di quelli che sono partiti, è nata in Svizzera ma è poi tornata nella terra d’origine, la Basilicata, dove oggi vive. Basilicata o Lucania? Già nella scelta del nome della regione, si coglie il tema di fondo del suo ultimo e intenso bel libro di poesie, dal titolo Storie minime (Fara editore, info@faraeditore.it), con il quale conferma il suo notevole talento letterario e la sua scrittura, libera dal versificare barocco e autoreferenziale. Ne avremo prova anche nell’antologia  Il segreto delle fragole (Lieto Colle, a cura di Luca Baldoni e Elio Pecora), in corso di pubblicazione, alla quale Ciancio partecipa affrontando il tema de “L’Italia e la fatica di amarla”. In ‘Storie minime’ il tema di fondo è lo “spaesamento” ( “Lo spaesamento, ecco cos’è:/  un tempo in cui le mani non sanno più/ se stringersi a pugno/ o fermarsi/ distendersi a ramo sul cuscino”).
La scelta semantica sottolinea la dimensione esistenziale di quella realtà che è “il paese”: nel mondo urbanizzato, dove dal 2007, più della metà della popolazione mondiale vive nelle città, questa dimensione che assurge quasi a parametro bucolico nelle regioni dello sviluppo storico, ha altrove e in modo diffuso i tratti scarnificati delle pareti scolorite, delle fessure nei muri, delle strade vuote e battute dal vento, dei paesi da cui troppi – per mille motivi -  sono partiti e pochi sono restati partendo davvero, cercando un senso, per quelle strade, al loro restare lì. Dopo un po’ ci si accorge che “le pietre della casa sono grandi libri chiusi/ hanno polvere spessa lungo i bordi/ e ci nascondono alla vista i fantasmi/ e l’ombra sfilacciata di noi stessi”.
È significativo che aleggi tra questi versi lo spirito solare e sfortunato di Rocco Scotellaro che cantò e interpretò col suo vivere l’emancipazione del paese e dei suoi abitanti, semmai pensando a un rientro di chi era partito quando quelli che restavano erano comunque tanti. E tuttavia già lui fece esperienza dello spaesamento, quel “capostorno” rimasto a metà, assopito a Pozzuoli (“Io sono un filo d’erba/ un filo d’erba che trema./ E la mia patria è dove l’erba trema”). Partì anche lui, ma questo è un tema che esula dalla ricerca di Ciancio. La domanda di fondo è: “Che senso mi do in questo luogo dove – per mille motivi speculari a quelli di coloro che sono partiti – devo restare?” La risposta è forse più presente nel precedente La ragazza con la valigia (Ed. Lieto Colle, 2008), partita e ora ritornata. Ma qui, nelle Storie minime, Maria Pina non lo dice. Prima ci sono quelle strade dove alla porta si bussa per aprire sapendo che ci apre il fantasma di chi ci era ieri, talvolta quelli che ci hanno generato ed amato. È lo spaesamento perché gli altri abitano nella nostra testa ma non li possiamo abbracciare, se non con il cuore. In Ciancio, in particolare, la figura del padre, nel suo ricordo e nella sua presenza-assenza, si unisce al timore di restare senza traccia. Resiste la vita insieme al pane, le preghiere e gesti di tenerezza.
“Voglio vivere nel mondo, non dietro un muro, voglio vivere nel mondo, non dentro la mia testa”, cantava, non molti anni fa, un artista sensibile come Jackson Browne. Non è facile:

“Mi abitano i paesi spopolati/e il vento – scrive Ciancio - la luce che scorre in un istante/ e frana nella crepa dei calanchi/ nella carne”. Nelle lunghe giornate invernali “ci assale la nebbia nella piazza spopolata/ a smussarci i contorni e gli spigoli degli occhi”. Giornate nelle quali, anche d’estate,
“… facciamo percorsi lunghi/ per ritornare sempre all’inizio…”.

Il paese è quello delle alture, è una sorta di montagna incantata, dove si rincorre l’epica del ricordo: “Da quassù – scrive Maria Pina - non sappiamo pensarlo/ né amarlo il mare/ Abbiamo bisogno di appoggi e ripari/ (un albero, un sasso, un nido di poiana)/ di ascoltarci a distanza/ il rumore dei passi
Altrove l’autrice osserva: “I nostri paesi sembra che a volte non hanno più sguardo. Li attraversi di giorno, di notte, al mattino presto, tra le case chiuse, le piazze spopolate, nei vicoli che sanno ancora di neve, e senti nell’aria la lama lucida e spietata della resa… Ci siamo dimezzati” (prosa 1). C’è un tratto generazionale, condiviso da quanti hanno oggi intorno a quarant’anni e che sono figli dell’emigrazione, che portano nel cuore la presenza di più mondi e di più tempi e, volenti o nolenti, sono costretti  alla ricerca di una loro composizione. Per chi ritorna in paese, l’impatto è pesante, soprattutto con quelle consuetudini che sembrano non potere essere scalfite. “A quarant’anni ecco cos’eravamo:/ quelli fuori dal coro, fuori dal giro/ fuori da tutto/ qui non importa a nessuno chi sei/ importa soltanto con chi stai”. Tanti sono partiti e quando ci si conta “manca sempre un legno e un nome”.
E’ un libro bello quello di Maria Pina Ciancio, perché, oltre ad essere ben scritto, è composto di pagine che non fingono, che sono vere. È la testimonianza di chi cerca sé negli altri e per fuggire il demone spaesante del ricordo, deve prima guardarlo in faccia per giungere a cacciarlo, dissiparlo. 18 i testi, di cui due prose e quattro poemetti (il I in 10 parti; il II in 11; il III in 6; il IV in 9). Altra era invece la struttura de La ragazza con valigia: tre sezioni, con le nove poesie de Lo sguardo di terra annodato alla luna, le quindici de Il filo delle rondini nere di ritorno e le tredici  de Il premio della luce. Ci sono storie di destini ma anche di vite che sanno dire no al programma tracciato, a causa del quale nelle case “il presente è sempre altrove” e le carezze sempre senza cura.
Nina, ad esempio, “viveva sola e si burlava/ delle mie paure e dei miei amori/ La cercai dappertutto… a trent’anni la scoprii col cappotto/ che spiava il Mondo dalla serratura della porta” o Fabrizia che “ha diritto a stare zitta/ o a naufragare tra i contorni/ generosi del rossetto/ non era ancora l’alba quando perse sua madre/ un mazzo di chiavi arrugginite/ nel catalogo delle amiche/ di suo padre”.  Un’altra protagonista solitaria vive, come su accennato, nelle stagioni sospese del tempo (un rischio evidenziato in Storie minime), una storia come questa: “Stese panni biancoazzurri/ al filo delle rondini nere/ di ritorno/ e rimase immobile, scarmigliata dal vento/ i capelli e i vestiti graffiati/ da carezze senza cura/ chissà perché in quella casa/ dai tetti rossi/ il tempo del presente/ era sempre altrove”.
C'e' anche una “ragazza con la valigia”, quasi un ritratto dell'ingenuità che vince il destino e che presiede al racconto delle vite di Adalgisa e Carla, Nina e Marta e, ancora, di  altre otto figure femminili. Carla, in particolare, che “era sempre stata/ una brava moglie/ casa-lavoro casa-lavoro/ routine, parenti, litigi,/ ma un giorno di marzo/ il vento le prese il grembiule/ e lei lo rincorse felice/ e senza rimorso”.
Non c’è fatalismo in Maria Pina Ciancio, ma il ritratto di chi il fatalismo lo ha accettato o subìto e la prospettiva di chi lo ha rigettato, conseguendo "il  premio inaspettato della luce", proprio come quella ragazza con la valigia che “scese dall’autobus… e sorrise/ con le mani lievitate di terra e luna/ sorrise”.

Michele Brancale











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