martedì 12 marzo 2024

Ornella Mallo legge "nell'ora dell'aurora" di Daìta Martinez

 


Fotografia in copertina di Heather Green
Recensione a cura di Ornella Mallo


Massimo Recalcati, ne “La luce delle stelle morte – Saggio su lutto e nostalgia”, scrive: “Pensiamo allo strano fenomeno astrofisico della luce delle stelle. Questa luce che osserviamo sempre con emozione fare la sua apparizione nei nostri cieli, come spiegano gli scienziati, non emana da una stella effettivamente esistente nello spazio celeste. Piuttosto arriva a noi con molti anni di ritardo (probabilmente milioni) da una stella già morta, scomparsa nel grande buio dell’universo. Quando guardiamo il cielo stellato sopra le nostre teste, ammiriamo una presenza che è fatta di assenza o una assenza che si rende presente. […] Vediamo la luce delle stelle brillare nel buio della notte senza pensare che sia generata da un oggetto già morto. È il volto più proprio della […] nostalgia-gratitudine: quello che è passato non è più tra noi ma, anziché diventare oggetto di un rimpianto regressivo, risplende nella sua assenza raggiungendoci come una visitazione inattesa.”

La silloge “Nell’ora dell’aurora” è irradiata della luce che promana dalla memoria del padre, stella amatissima nella vita dell’autrice, Daìta Martinez: “lieve m’affiora un soffio / la carezza di mio padre”, scrive nei primi versi della raccolta. La poetessa indaga sul mistero della vita e della morte, camminando sul bordo che è al contempo diga e ponte verso una nuova vita.

Ricorda come il padre sia stato chiamato al cielo dalla “visita improvvisa” di un angelo: “la sua voce” si è fatta “arco e firmamento nel mattino eterno sul viso di mio padre”. La sua poesia è il prisma attraverso cui si scompone nelle emozioni in esso condensate, l’istante in cui “tutto cade / bianco dal bianco fianco che ha / la luna quando bambina si ritira”: l’«ora dell’aurora» che benedice il padre mentre muore, i cui riverberi l’Autrice riconosce nell'oggi, per proiettarli e ritrovarli nel domani. Infatti passato, presente e futuro nella sua poesia si riversano l’uno nell'altro in un continuum senza interruzioni. La sua è una memoria assai diversa “da quella che anima la ruminazione incessante della nostalgia-rimpianto”, per citare Recalcati: “non si limita a custodire e a idealizzare quello che è già avvenuto, ma irrompe nel tempo presente come un fascio di luce inaudito assolutamente nuovo e assolutamente antico, come un’apparizione imprevista. Il filo del tempo annoda così passato, presente e avvenire generando un corto circuito nel quale ogni estasi temporale si rovescia nell’altra; quello che ritorna dal passato appare nuovo e può riaprire la vita allo splendore della vita laddove, invece, nella nostalgia- rimpianto l’avvenire della vita risulta risucchiato all'indietro, sommerso da un passato che non vuole passare.”

Affiora allora tutto il non detto, il non visto e il non capito di un vissuto che, illuminato dalla memoria,  trova nitore e chiarezza. Adesso Daìta trova le parole e il coraggio per spiegarlo e per raccontarlo, riempiendo così il vuoto generato dalla scomparsa fisica del padre. Dopo la morte il loro rapporto, lungi dallo spegnersi, si consolida divenendo sempre più intimo. Non ci sono più ferite da nascondere dietro lo schermo del pudore. Scrive l’Autrice: “adesso indosso / il tuo sorriso a me sfuggito prima di tutti / i giorni non compresi per impreciso mio / bisogno di vuoto rimesso al vuoto stesso / e nessuno spazio ammesso ché sbaglio fa / l’abbaglio come rifugio mio sacro pianto / il disagio che il ritmo preda al centro del // mattino cosicché è imprevisto il raggio a / sorgere la figlia narrata nello stupore del / discorso mai detto a te introvabile amato / uomo che d’ogni me già sai la ferita vita”. Scriveva Vitaliano Trevisan ne “I quindicimila passi”: “Se i morti tornassero sarebbe davvero un problema perché non troverebbero spazio, fuori o dentro di noi, pensavo; né fuori né dentro di noi esiste più vuoto, non c’è più spazio nella nostra affollatissima prospettiva.” La figura del padre riempie la poetessa e la accompagna nel suo cammino, essendosi incorporata spiritualmente in lei. Ecco che allora Martinez gli racconta le sue esperienze spogliandole dell’involucro del tempo che le costringe in un guscio definito, e le rivela nella loro dimensione archetipica, ancestrale. Così gli amori si riversano nell'amare, e l’accudimento nei confronti di Antonio e Giorgia manifesta il suo istinto materno, non vissuto come esperienza fisica, ma nella sua dimensione spirituale di cura e attenzione. Scrive: “giorgia ha il suono della gioia / […] fa culla l’amore / custode che al viso una fiaba / tra i capelli della madre è nido / di mani il batticuore del padre”; “nello zaino di antonio / di nuvola torna vuoto il ticchettio di un’aiuola / […] una donna non è madre santa della grazia / e ti è madre per un gesto a meraviglia del creato / eppure madre che neppure è”. Sull'amore scrive: “e sei   dove una stanza di pioggia carezza […] // e sono   dove una stanza diventa la tua bocca / il pudore dell’amore prima di dirsi amore / […] // e siamo dove la stessa stanza penetra e mangia / di noi il cuore […]”.

La poesia di Daìta è altamente sensoriale. Essa infatti sgorga dalle molteplici percezioni della realtà fornite dai suoi sensi – udito, vista, olfatto, tatto, gusto e intuito, il sesto senso che permette di intus legere, leggerla dentro –, sedimentate nei suoi abissi, e scuote i sensi e la coscienza del lettore fino ad arrivare all'inconscio, in un gioco di rimandi che la amplifica e la allarga di significato all'infinito. Scriveva Magritte: “Uno studioso al microscopio vede molto di più di noi. Ma c’è un momento, un punto, in cui anch'egli deve fermarsi. Ebbene, è a quel punto che per me comincia la poesia.”

Nei versi di Daìta si incastonano i dettagli di tutta la sua vita, eterni perché invariati nella memoria, inscalfibili. Dettagli, e non frammenti, capaci di evocare quanto c’è di invisibile e ineffabile nella realtà materiale. Scrive Recalcati: “Il dettaglio non è il frammento vincolato al ricordo, ma ciò che condensa misteriosamente un intero mondo in un singolo tratto. […] È quello che, ne “La camera chiara”, Roland Barthes ha definito punctum. Qualcosa punge, sveglia, apre l’immagine all'irrappresentabile, all'inimmaginabile.” Eccoli i dettagli della realtà messi in luce dai versi che ne sono la fotografia: “i mercati scomposti”, l’”odore del pane” che ha il vento, “le ciglia delle mani”, il “profumo di betulla” che ha una bimba quando si addormenta. Sinestesie si susseguono nel flusso di coscienza di Daìta, solo in apparenza non governato né governabile. Le parole sono tutte scritte in minuscolo, non intervallate da segni di interpunzione. Talvolta trovano ordine in strofe, talvolta in distici, ma prevale un afflusso che a prima vista asseconda la cifra della scrittura automatica.

In realtà la versificazione obbedisce a un severo ritmo musicale: quello del valzer, il cui tempo ternario viene impresso da parole distribuite ad arte, confermando così l’attenzione al dettaglio della poetessa. Un esempio: “lei senza testacuoretesta cade e / di nuovo cade cuoretestacuore / […] la donna senza testacuoretesta / infiora e s’infiora lui la infiora /” Daìta stessa cita in modo ricorrente il valzer: “la cicala il valzer la gioia”, o anche le note di Satie, per cui le parole declamate si levano nell'aria disegnando spirali di suono.

Fanno da scenario ai versi: la casa, evocata anch'essa da dettagli minimali, come luogo fisico che racchiude la vita sua e delle persone da lei amate, innervata di una religiosità che la rende chiesa: “bianca e vuota la sedia in cucina sfiorata / la brocca appena nel tatto dell’assenza il / dorso lieve dell’innocenza alberata sulla / mano come il dondolo che breve tiene te // padre mio che sei benedetto dall'aurora”; e Palermo, città natale dell’autrice, evocata dai dettagli dei luoghi e del dialetto. Immagini e suoni si alternano cadenzate: il “giardino inglese”, “porta carini”, lo “spasimo”, “le scarpe ammucciate sutta ‘a vistina spizzuliata cu l’ali di l’anceli appuiate ‘ a lu ciatu del padre”. Il tutto irrorato della luce bianca dell’aurora, metafora intanto di uno sguardo rivolto in avanti, verso un giorno che deve ancora sorgere, ma che già si annuncia come certamente imminente. Al contempo, questa luce altamente rischiarante, senza essere abbagliante, è metafora di una dimensione divina immanente, di cui sono intermediari gli angeli invocati in versi che si fanno preghiera: “in quel tutto bianco che / è l’inizio dell’aurora mentre non è ancora aurora e / le mani si fermano sullo stesso lato delle parole a / parlare le parole mai perfette eppure così essenziali / e perfette da rubare alla tristezza la sua ferita e sorridere come sorridono gli angeli quando non / lasciano cadere”.

Il sentimento che intride la silloge, lungi dall'essere lo sconforto per la perdita, è quindi la speranza: “una preghiera la / calma del dirsi speranza”.

La memoria di Daìta s’infutura, per usare il neologismo dantesco.  Scrive Pontalis in Limbo: “La memoria che prediligo, lungi dall'essere la depositaria di ciò che è scomparso, è per me il luogo inesauribile delle apparizioni, di un nuovo che non ha età”.

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