domenica 30 ottobre 2022

“Il silenzio bussa alla mia porta”

Jeton Kelmendi, Tra realtà e sogno

a cura di Maria Miraglia, Quorum Edizioni 2019 

recensione di AR



Tradurre poesia è impresa particolarmente ardua e anche se qui e là sembra che la versione italiana dell’opera di Kelmendi sia piuttosto letterale o sfuocata, abbiamo con queso libro l’opportunità di conoscere un poeta dal lirismo autentico e dallo sguardo penetrante e ne percepiamo la ricchezza di immagini e visioni pregnanti: la morte come “un sonno senza sogni” (p. 16); la vita come un “viaggio / Per arrivare in te stesso” (p. 21). Verifichiamo che, come per i trovatori provenzali, la lontananza da chi si ama crea una tensione per cui “Là vivi tu e i miei pensieri / Qui, io e i tuoi pensieri” (p. 33). Si consideri anche il verso scelto per intitolare questa recensione tratto da Ho camminato lungo la strada degli altri (p. 43), poesia che si apre con questa intensa citazione di Biante “Innamorati dei pensieri che un giorno odierai, e odia quei pensieri di cui un giorno ti innamorerai”.     

Come scrive nella bella Prefazione Giovanni Dotoli (p. 7): “La storia è una catena di impronte, di passaggi, di parole, di patria mutevole”. E conclude (p. 9): “Jeton Kelmendi ci dimostra che essere poeta significa coniugare la parole in ogni tempo con la vita. Messaggio meraviglioso che mai dovremmo dimenticare”. Mentre Maria Miraglia nella sua Introduzione giustamente ricorda che per Jeton la poesia è un “mezzo per costruire punti tra i popoli attraverso una reciproca conoscenza che consenta di abbattere mura e barriere” (p. 13). 

Quella del poeta kosovaro di Peja è una voce sapienziale per cui i tratti  lirici sono strettamente legati alle questioni fondamentali dell’esistenza. Come un novello Qohèlet si cala nella condizione umana, ne vede le storture, le violenze, le sopraffazioni ma anche i bagliori di assoluto, la bellezza che possono avere alcuni gesti quotidiani che ci portano a vivere con empatia la realtà, ci invita a cogliere il momento e a viverlo sino in fondo, sapendo che ogni nostro comportamento ha comunque sempre delle conseguenze che il tempo (a suo tempo) produrrà, che l’uomo è un essere desiderante aperto all’infinito ma deve umilmente considerare i suoi limiti (e lo stesso linguaggio – poetico o scientifico che sia – glieli ricorda), che il tortuoso cammino di ciascuno e in fondo un tornare a sé stessi cambiati, trasformati e sperabilmente migliorati: “Dai molto al presente / Per ricevere qualcosa in ritorno, più tardi” (p. 22); “Lascia andare / Le parole che non conosciamo; /  Aspettiamo ancora che siano scoperte. // Da qualche parte, alcuni parlano del silenzio / La lingua di Dio con le stelle” (p. 48); “Non attendere il silenzio, / È meglio imparare la sua lingua / Quando non hai nulla da dire” (p. 49); “Ogni sentiero conduce a me” (p. 62); “Sarò stanotte / La parola / Da cucire nella frase” (p. 86); “Le parole sono pianeti / Vivono in cima al pensiero” (p. 91). 

La poesia, confessa Kelmendi, ci aiuta a individuare il suono subdolo e pernicioso della falsità (cfr. Rumore, p. 24) e a metterci a nudo, a fare verità in noi stessi, magari rivolgendosi così alla Luna: “Insegnami / Solo come amare / E non come essere amato” (p. 99). È questa una richiesta che ci trasforma in esseri nuovi e rende le nostre ferite e i nostri errori varchi a una Misercordia più grande e sempre presente che solo dobbiamo accogliere fiduciosi: “È arrivata la parola che non ho mai detto / Solenne come la cima del Monte Verde / Mi ha sollevato” (p. 81).

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