Martina Campi, La saggezza dei corpi, L'arcolaio 2015, pp. 52, € 10,00
recensione di AR
La malattia ci pone in una situazione di bisogno, di debolezza, di essenzialità prossima allo scarto… ci deposita quasi in una dimpensione parallela. I compagni (compagne in questo caso) di stanza possono interagire con noi a un livello del tutto particolare, le visite dei familiari, senz'altro gradite, possono apparire un po' come visite di alieni, il personale medico e paramedico è presente con le sue specifiche funzioni in maniera però professionalmente distaccata, le coordinate spazio-temporali risultano alterate, le sensazioni e i sentimenti vengono “ridimensionati”. Si acquista una sensibilità particolare, il corpo ci richiede una attenzione che solitamente non gli dedichiamo, i pensieri sembrano aprire caselle della memoria impolverate dagli anni o suggerire percorsi insoliti, inesplorati… Questo e molto altro troviamo in queste sette giornate (introdotte da citazioni tratte da I vangeli per guarire di A. Jodorowski) che Martina Campi ha trasfigurato in versi che si vorrebbe sentire interpretati ad alta voce (come suggerisce Christian Tito nella Postfazione: “L'autrice in molti passaggi sembra realmente dare voce ai propri arti, ai propri organi. Per intensità e ispirazione alcuni versi sembrano giungere direttamente dalla carne”, p. 43).
Sonia Caporossi nella partecipata e stimolante Prefazione ci ricorda che “compito dell'arte e, precipuamente, della poesia è proprio scardinare le certezze (…) la stessa aderenza del circolo ermeneutico tra significato e segno, per aprire squarci disvelatori” (pp. 14-15).
Ed è così, questa partitura in 7 movimenti ci sballottola, ci intriga, ci spiazza, ci porta al fondo del nostro grumo di materia senziente, ci emoziona e ci avvolge: “… c'è una mano tra i palazzi e un muso / tra i raggi del sole che sbatte e sbatte ancora / da dove vieni? Dov'è trascorsa la notte?” (Giorno #1, p. 17); “quanta è la realtà dentro (agli occhi) / cedevole e ondeggiante, e distesa e sensibile” (ivi, p. 19); “le visite sono schiene / nel corridoio (a svanire, meste)” (Giorno #2, p. 22); “quello che resta in gola di là dal buio / è la polvere avvizzita dei morti” (ivi, p. 23); “nell'acqua svelta della mattina a spruzzi / si contiene la voce che manca e i pianoforti / piccolini, piano aggiunti / nei passi ossuti / (…) / ci siamo seduti come attorno / a un tavolino da giardino / senza che ci fosse alcunché, / da appoggiare o stendere” (Giorno #4, p. 29); “qui è tutto bianco, e la notte non si rimargina / anzi sbobina il buio che sta in basso e viene, su” (Giorno #5, p. 33); “riferiti deficit neurologici transitori / oscillazioni della vigilanza / trascinamento bilaterale / diplopia, vertigine soggettiva / amnesia di fissazione // e tutto ritorna com'è / e tutto intorno s'aggira fino / ai prossimi giorni, ignoti” (Giorno #7, p. 41).
In fondo anche la cosiddetta normalità deve fari i conti con un'area ignota, di cui magari ci dimentichiamo perché presi da affanni e impegni che richiedono le nostre energie e congelano l'attenzione su obbiettivi che riteniamo primari. La malattia ci ricorda che forse ce ne sono però altri, che lo sono in grado maggiore. Il corpo è saggio e tiene traccia di ciò che conta, ci riporta alla realtà di quel che siamo, sollecita la nostra anima a considerare la fatica di una consapevolezza di natura alta, spirituale non del tutto dipendente da noi (a noi è richiesto di accoglierla) che ci proietta sempre fuori dal nostro particulare, che ci porta ad essere umili e anche più solidali, grati e fraterni: allora saremo alberi in grado di dare buoni frutti (Lc 6,43) a prescindere dalla durata del nostro corso vitale.
recensione di AR
La malattia ci pone in una situazione di bisogno, di debolezza, di essenzialità prossima allo scarto… ci deposita quasi in una dimpensione parallela. I compagni (compagne in questo caso) di stanza possono interagire con noi a un livello del tutto particolare, le visite dei familiari, senz'altro gradite, possono apparire un po' come visite di alieni, il personale medico e paramedico è presente con le sue specifiche funzioni in maniera però professionalmente distaccata, le coordinate spazio-temporali risultano alterate, le sensazioni e i sentimenti vengono “ridimensionati”. Si acquista una sensibilità particolare, il corpo ci richiede una attenzione che solitamente non gli dedichiamo, i pensieri sembrano aprire caselle della memoria impolverate dagli anni o suggerire percorsi insoliti, inesplorati… Questo e molto altro troviamo in queste sette giornate (introdotte da citazioni tratte da I vangeli per guarire di A. Jodorowski) che Martina Campi ha trasfigurato in versi che si vorrebbe sentire interpretati ad alta voce (come suggerisce Christian Tito nella Postfazione: “L'autrice in molti passaggi sembra realmente dare voce ai propri arti, ai propri organi. Per intensità e ispirazione alcuni versi sembrano giungere direttamente dalla carne”, p. 43).
Sonia Caporossi nella partecipata e stimolante Prefazione ci ricorda che “compito dell'arte e, precipuamente, della poesia è proprio scardinare le certezze (…) la stessa aderenza del circolo ermeneutico tra significato e segno, per aprire squarci disvelatori” (pp. 14-15).
Ed è così, questa partitura in 7 movimenti ci sballottola, ci intriga, ci spiazza, ci porta al fondo del nostro grumo di materia senziente, ci emoziona e ci avvolge: “… c'è una mano tra i palazzi e un muso / tra i raggi del sole che sbatte e sbatte ancora / da dove vieni? Dov'è trascorsa la notte?” (Giorno #1, p. 17); “quanta è la realtà dentro (agli occhi) / cedevole e ondeggiante, e distesa e sensibile” (ivi, p. 19); “le visite sono schiene / nel corridoio (a svanire, meste)” (Giorno #2, p. 22); “quello che resta in gola di là dal buio / è la polvere avvizzita dei morti” (ivi, p. 23); “nell'acqua svelta della mattina a spruzzi / si contiene la voce che manca e i pianoforti / piccolini, piano aggiunti / nei passi ossuti / (…) / ci siamo seduti come attorno / a un tavolino da giardino / senza che ci fosse alcunché, / da appoggiare o stendere” (Giorno #4, p. 29); “qui è tutto bianco, e la notte non si rimargina / anzi sbobina il buio che sta in basso e viene, su” (Giorno #5, p. 33); “riferiti deficit neurologici transitori / oscillazioni della vigilanza / trascinamento bilaterale / diplopia, vertigine soggettiva / amnesia di fissazione // e tutto ritorna com'è / e tutto intorno s'aggira fino / ai prossimi giorni, ignoti” (Giorno #7, p. 41).
In fondo anche la cosiddetta normalità deve fari i conti con un'area ignota, di cui magari ci dimentichiamo perché presi da affanni e impegni che richiedono le nostre energie e congelano l'attenzione su obbiettivi che riteniamo primari. La malattia ci ricorda che forse ce ne sono però altri, che lo sono in grado maggiore. Il corpo è saggio e tiene traccia di ciò che conta, ci riporta alla realtà di quel che siamo, sollecita la nostra anima a considerare la fatica di una consapevolezza di natura alta, spirituale non del tutto dipendente da noi (a noi è richiesto di accoglierla) che ci proietta sempre fuori dal nostro particulare, che ci porta ad essere umili e anche più solidali, grati e fraterni: allora saremo alberi in grado di dare buoni frutti (Lc 6,43) a prescindere dalla durata del nostro corso vitale.
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