Nota di lettura di Maria Lenti
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Griselda Doka si veste del suo passato per ritrovarsi e abitare il presente. Ne rilascia acquarelli a volte, altre volte pennellate intense di un sé non schermato, altre ancora quadri di una comunità, di una società, nativamente, acqua fresca in pieno deserto, innervati nel suo intimo: interni familiari, in cui la madre vi emerge a rimpianto, il padre a ricordo e a confronto, mentre l’intorno si fa prato calato in soluzione di continuità.
Un soggettivo vivere l’oggi, dunque, tra esilio e nuova appartenenza. Nell’indietro irremeabile va da sé la malinconia, se non il dolore (XXXI, « pensieri… che scavano la gola / e picchiano la testa», p. 83), così come nel quotidiano indistinguibile non si trovano ragioni per ridere. Ma è altrettanto vero che non si vuole «restare un pugno in faccia / o quella porta sbattuta / non lo senti il vento / come mugola all’orizzonte?» (XXX, p. 81). Ed è chiaro che non ci si attesta sull’immobilità: «Chi eravamo ieri? / Dove siamo oggi? / … Vorrei plasmare ancora speranze / e tessere le glorie / senza scontare i conti» (XXIII, p. 65).
Si presume, non essendoci indicazione, che i testi in italiano siano della stessa Griselda Doka. Fissati in una lingua flessibile, duttile, che ridà limpidi i “moti dell’anima”, il sentimento della perdita e il sentire il nuovo in ingresso. “Elementi”, questi, del vissuto e della vita stessa della poetessa: nata a Terpan, Berat (Albania), attualmente è dottoranda di studi letterari e linguistici all’Università della Calabria. Ha ideato e portato avanti il concorso internazionale di poesia della migrazione.
(In cauda: Un solo sgomento, per me lettrice: non conoscere l’albanese per capire la dinamica della traduzione. Avverto, per tratti e in brevità, dall’altra all’una lingua, uno scorrere fluido: me lo dice un dizionarietto acquistato per una vacanza in Albania.)
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