L’ultima raccolta poetica del noto giornalista Rai è un’acuta e ironica riflessione sulla vita, l’amore, la morte
“La vita è questo scialo/di triti fatti, vano/più che crudele”: si apre con questa citazione montaliana (Flussi, Ossia di seppia) dalla sezione “Meriggi e ombre” l’ultima raccolta poetica del siculo-trentino-meranese Lillo Gullo (Lo scialo dei fatti, LietoColle, pp. 80, € 13,00). Volto noto del Tg Rai del Trentino, tra i fondatori del Tg Ragazzi della Rai, Gullo (i cui interessi spaziano dalla sociologia all’antropologia culturale, dai fumetti all’epistemologia e all’arte), dopo aver pubblicato vari libriccini poetici in tiratura limitata (e raffinata) con Pulcinoelefante, è risultato tra i vincitori al premio Montale nel 1999 (con la raccolta “Il disertore”) e poi ha pubblicato altre sei sillogi poetiche. Nella nuova raccolta (di recente segnalata al Pontedilegnopoesia, premio nel cui albo d'oro figurano i nomi di Franco Loi, Milo de Angelis e Maurizio Cucchi) ritroviamo quella commistione di leggerezza e riflessione, ironia e lirismo, ludo e inquietudine che dialetticamente caratterizzano il fare poetico specifico di questo autore. Nella sua prefazione, il critico torinese Giorgio Bárberi Squarotti parla di versi dall’ “Effetto impressionistico, slancio del divertimento di ritmi e di giochi di parole e di intimo compiacimento verbale” affiancati ad altri con andamento più lirico che si alternano a un caratteristico procedere aforistico, mentre altrove si stagliano figure inquietanti e enigmatiche che alludono ad annunciazioni di una possibile apocalisse e inquietudini esistenziali. Il libro si presenta come un copione: in incipit vengono descritti gli attrezzi di scena, quindi i fatti. Il prologo è “a mani alzate:/e non è l’usato tic di chi vince/bensì il limato gesto di altra razza:/di chi da tempo si allena alla resa”. Gullo predilige uno stile duttile, il metro breve, la quartina, spesso di taglio aforistico-gnomico: quell’aforisma che nel novecento poetico italiano ha avuto molti sacerdoti, basti citare i frantumi e le fosforescenze del vociano Giovanni Boine , le scorciatorie di Umberto Saba ma soprattutto i fuochi fatui di Camillo Sbarbaro. Proprio quest’ultimo, in un suo fuoco fatuo, scriveva “ Anche della mia lingua ho una conoscenza approssimativa. Tante parole le evito, malsicuro del loro significato; e se non le cerco nei dizionari, non è solo che dei dizionari diffido, ma che una parola non assimilata in tanti anni, non divenuta carne e sangue, mi saprebbe sempre di accatto”. Sembra fargli eco Gullo, che annota: “Luogo di frodi è il dizionario alfabetico,/dove l’incorrotto abita a fianco dell’iniquo” (Dizionario di frodi). Andamento aforistico e ilare ironia, dicevamo: elementi di un contenuto che ama spesso procedere per figure di enumerazione-elencazione: “una mosca, la tosse,/una nube, un rumore:/basta un nonnulla/e son guaste le ore./ Un canto, un ruscello,/un’arancia, un rossore:/basta un nonnulla/e son belle le ore” (Le belle ore). Liste e ricettari fanno parte di un copione che si può imparare solo vivendo: la recita dell’esistenza (“Un chiuso senza sbarre/da cui non si evade/con la lima di un panettiere libertario”, Il gioco) mescola brezze di menta, profumi di agrumi, l’oro, la schiuma marina con l’apparire improvviso di bordonari (proprietari di un mulo o di un asino che in Sicilia erano dediti al trasporto specie di grani, orzi e fave dalle aie, dalle fosse e dai magazzini, situati nei paesi e nelle masserie) che “si diressero infine alle alture/lasciandosi dietro/solo polvere e congetture.” L’ospite inatteso ha le parvenze dell’ unhiemlich (inquietante) freudiano, ciò che un tempo era di casa (l’ideale dell’ostrica, le tradizioni, l’isola madrepatria): è la draunèra (tromba marina) che “vampe d’acque/vomita”, è il “sordo scalciare” di muli, è “l’ordito che impania/gli armenti alle stoppie”. Nella vasca dell’anima, la leggerezza che in certe poesie ci fa intravedere un’eco del medievale Folgòre da San Gimignano (nei suoi versi sui mesi estivi, soprattutto) o la semplicità malinconica del veneto Diego Valeri, assume talora il profilo oscuro di certi crescendo pascoliani che nel paesaggio trovano il segno di un’arcaica (mai rimossa) tragedia.
Questi
i fatti, dunque, questa la dialettica tra vita e incubo: “Quanto a me: non so
domani/ma adesso scrivo solo per somigliare/a una brezza di mare quando
s’impiglia/tra le forche di un mandorlo
in fiore” (Brezza di mare). La
dichiarazione di poetica –come lo scialo,
lo stile e il lessico di certe poesie- ci lascia intravedere il riflesso
del grande montale, il poetare sull’inciampo, sul “rivo strozzato che gorgoglia”,
la poesia come un’ eco dell’infinita voce del mare (“Noi non sappiamo quale sortiremo/domani,
oscuro o lieto/ forse il nostro cammino a non tòcche radure ci addurrà/dove
mormori eterna l’acqua di giovinezza”, sezione Mediterraneo degli Ossi)
Tra desideri di vita (d’amore, baci, solarità,
profumi di agrumi, uno sguardo d’intesa) e senso di resa, mentre si avverte la
presenza dell’ombra del sarto che ci prende le misure per l’abito finale, un
occhio al libro delle orazioni, un labbro alla bottiglia d’Armagnac, Gullo è
intento a “rattoppare la vita con lo spago del tempo”, a muovere le sue pedine
con sottile ironia nella scacchiera della “morienza dei giorni” (come
registrato in una precendente raccolta, “Lo
sfarzo dei giorni”, ed. Nicolodi). Un compito antropologico, una cavatina
da poeta –cieco- dell’ordinario, un atto
di esorcismo, da condividere.
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