lunedì 13 febbraio 2012

Andrea Rompianesi recensisce Piano di Alberto Mori

Dario Sacchi nel suo recente Le ragioni di Abramo si sofferma sul pensiero di Kierkegaard e la paradossalità del logos, sostenendo come, in definitiva, il pensatore danese, fondi un suo procedere sulla convinzione che il paradosso sia l’unica alternativa all’auto-contraddizione cui non sa sottrarsi il pensiero oggettivo. Dunque, un timore è superato, nel segno poetico, anche in questo caso da Alberto Mori in Piano. E paradosso (inteso come asserzione che è in netto contrasto con la comune opinione) sceglie di essere anche la definitiva identità di tutti gli elementi che la poetica di Mori trasforma in soggetti “altro da sé”. Ma paradosso può anche essere inteso, in un ulteriore significato, come “paradorso”, cioè rilievo murario nelle opere fortificate per proteggere i difensori. Qui il poeta abita, infatti, una levigata costruzione tale da risiedere in evocati materici, dopo i passaggi delle attenzioni e dei rinvii, “la terra va nella terra” , “ecco passa / atterra e scorre”. Piano è ente geometrico, ma anche superficie, zona di pianura,livello, corpo appiattito, unità stratigrafica, piano tangente, palco… e ancora qualcosa di piatto e disteso, o agevole, umile, dimesso, quieto; è avverbio figurativo che indica il muoversi adagio, con cautela, sommessamente. Ma è anche un progetto, un proposito o disegno, come quello che tra le pagine esprime un fissarsi di oggetti. Qualcosa prosegue in modo dimensionale e costruisce; quando le fasi giornaliere illuminano senza sfumature i perimetri del declivio collinare, oltre le scene ripetute che allontanano o, meglio, immobilizzano le fasi impreviste. Anche il mare appare piano, a questo punto, e insinua il fianco e la voltura, lo schema e lo sciame (il flauto e la bricolla,verrebbe alla mente, citando Sinigaglia, poeta posto su rive lontane e diversissime). Qualcosa di vegetale sembra insinuarsi ben dentro le erosioni temporali, ma Alberto Mori, in questo caso, oppone un indugio frutto del concedere l’arbitrio ai movimenti dei versi che, in alcune tappe, scelgono la voragine del verticalismo simbolico. “Smette Riprende” la successione delle provocazioni al nostro tempo spento, riverso, arreso alle logiche aberranti del potere. Ma, forse, ancora il piano può trovare, al di là del muro, l’essenza. In questo suo recente risultato, Alberto Mori ha, più che “superato” le istanze rispetto a raccolte precedenti (come detto da Maria Grazia Martina nella prefazione) prevalentemente “recuperato” elementi già presenti in opere del passato, cercando un difficile equilibrio tra elemento artificiale e attesa biologica, in un tratto che comporta quindi, inevitabilmente, rischi e azzardi, come la lieve esitazione nel tuffarsi oltre la schermatura di un simbolo ibrido. Ma anche tutto questo è, immaginiamo, parte paradossale del “piano”.

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