recensione di Fortuna Della Porta
Aleggia sulla silloge la consapevolezza di un tradimento dalle molte fisionomie. L’arte del governo, in specie quella del sud, si è trasformata nel malaffare, che ha irrorato il suolo nativo di veleno ed esso oggi germoglia in piante anomale e tumori.
Sud che mi urli dentro e / mi disperi non voglio più saperne / delle belve assetate di potere.
E più avanti: Nelle mie montagne c'è la morte / la respiriamo nei fili d'erba nera, / nelle macchie malate dei castagni/cancro che sgorga dalla terra/madre dei nostri padri / merito dei politici assassini/carichi di denaro e di potere.
La terra – terra che divora i figli - a sua volta ha obbligato molti suoi nati all'esodo, non riuscendo a legare a sé chi vi è venuto alla luce, col concedere il necessario sostentamento e, pertanto, troppi, con disperazione, hanno dovuto cercare altri ripari.
Tradimento è anche di coloro che non hanno saputo custodire il dono degli antichi, ossia proprio questa terra benedetta, un tempo di latte e miele, dove l'anima una volta poteva mettersi a riposo. Nessun luogo è luogo dell'emozione, lontani dalle proprie strade e l'altrove, qui identificato col Nord e in particolare con Milano, è freddezza di impressioni e spaesamento. Nell’altrove, di cui trattasi, si allentano tutti i legami, sia quelli del sentimento sia della geografia.
Le genti del sud / hanno un cuore che / perdono al Nord nella / macchina del benessere / rincorrono case affollate / di elettrodomestici vuote / di vita.
Le genti del sud / hanno un cuore che / perdono al Nord nella / macchina del benessere / rincorrono case affollate / di elettrodomestici vuote / di vita.
Ritorna sovente l'aspirazione al mondo intatto dei padri, in una sorta di età mitica della vita perfetta, con quella forza di velame che la nostalgia pone sulle brutte cose passate, che di sicuro anche allora ci hanno attraversato. Ma forse lo sguardo del poeta vaga fin laggiù perché allora il cuore non doleva e ignorava che ci sono fulmini che squassano il cielo e in briciole lo riducono per sempre.
Il tradimento più tragico, difatti, è quello del destino che ruba figli ai padri, abbandonandoli alla propria desolazione. Le poesie dedicate al giovane figlio scomparso sono struggenti e se pure rappresentano una parte della prima sezione della raccolta, che include scritti dal 2007 al 2009, un senso di agonia - il cuore ha mille ferite - sembra stendersi davanti ai suoi occhi e alla sua percezione. È attraverso quel travaglio che oggi legge la sua realtà.
Amore mio chi vive / ha nel cuore il dolore / stridente del silenzio / pungente dell'invincibile destino.
D'Alessio, però, non si lascia andare, non smarrisce la via sulla quale corre il senso di sé e delle cose. Nella consapevolezza di dover convivere con la piaga, non perde di vista gli alti concetti che dovrebbero appartenere all'uomo: il senso della propria dignità e dell'onore, termine detto e ribadito a più riprese, e l'aspirazione a un punto nell'infinito nel quale tutte le sorti alla fine s'incontrano. Solo così le rotture non saranno mai definitive e i destini possono ricongiungersi.
L'uomo è frammento di eterno / disperso nel firmamento.
I versi della raccolta si ricompongono intorno ad una meditazione di grande spiritualità, sia riguardo a sé sia intorno alla sorte degli uomini.
Nel libro è compresa un'appendice, con testi dedicati alla sua terra, che datano 1996. Si evidenzia un contrappunto tra la parte paesaggistica e descrittiva e le considerazioni generali ed esistenziali, che mostrano come faccia parte dell'indole del poeta una certa malinconia. D’Alessio riesce a percepire in senso tragico dell'accadere nelle vicende più comuni: Grida il grano sotto/ la falce, urla l'incudine/ dove cala il maglio, / incendia la terra/ il tormento del niente.
Per quanto guardi/l'orizzonte è cieco. / Il mare/ spegne sotto vento/ schiume di rabbia sugli scogli.
Poco prima: Quante pietre/ le nostre vite/ Il mare/ entra a tratti violento/ porta a fondo/ pezzi di cielo.
Alla fine i poeti non imparano mai a essere felici.
Strutturalmente la silloge contiene scrittura matura. Si presenta di lettura piana, col vezzo nella prima parte di un abbandono quasi totale della punteggiatura e a verso libero. In verità molte composizioni sono sonetti, scanditi di solito in settenari e ottonari, con rime e assonanze varie, che accompagnano versi dal ritmo sempre grave e dolente.
Roma, gennaio 2011
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