mercoledì 26 agosto 2009

Su Figli di Vincenzo D’Alessio

Edizioni G.C.F. “F. Guarini” Montoro Inferiore, 2009

recensione di Narda Fattori

Il poeta può scrivere solo di ciò che sa, di ciò che ha sperimentato, di quello che natura e cultura dicono al suo udito attento, alla sua vista acuta, così prossima alla visione, alla sua anima sensitiva, ferma sul ciglio della realtà anche quando il desiderio di volo si fa a ridosso.
Per questo D’Alessio torna a parlare del suo Sud, dei figli della sua gente, dei morti, delle ferite inferte alla sua terra, degli assenti migrati, dei presenti malati.
La lucidità della storia della sua gente e della cronaca che ha fatto del territorio amato, così duro e amaro per altro, uno sversatoio di liquami tossici che intossicano la terra e il corpo e contaminano come una nuova peste tutti gli esseri viventi.
D’Alessio non teme di nominare i colpevoli di questo moderno male che alimenta processioni verso l’ultima dimora terrena; non fa nomi e cognomi perché non li si conosce, ma senza ritrosia addita chi ha reso cattiva la terra e malata l’aria. La sua è una poesia civile nel senso più lato del termine: se civiltà e rispetto, oltre che amore, è la sola modalità per cui una comunità può vivere e prosperare, la sua indignazione per avere mancato dell’una e dell’altro, si leva tesa, non urla ma si erge con l’indice teso e non teme, non trema.
All’Irpinia, nei secoli, sono toccate miserie e sfruttamento; ai suoi abitanti spesso non è rimasto altro che andarsene se non si voleva vivere sempre con il capo e la schiena chini; ma la dignità non è mai stata svenduta né per trenta né per enne denari.
D’Alessio chiama a sé tutti i suoi conterranei, tutti i “ figli” perché gli siano testimoni e tengano ancora alta la bandiera della dignità perchè le schiere dei nuovi mali cessino di allignare e si possano fermare le metastasi assassine.
“Nelle mie montagne c’è la morte/ la respiriamo nei fili d’erba nera/nelle macchie malate dei castagni/cancro che sgorga dalla terra/ madre dei nostri padri/merito di politici assassini/…/…/ Noi poveri uomini sconfitti di libertà.”
Ma quanto amore nasce da questa amara constatazione! Eccoli i migrati al nord al soldo del denaro e alla svendita della loro cultura, eppure D’Alessio afferma “mi /consola il volto/ carico di parole bocca/cucita ai modi antichi./…”
Quanto dolore anche! “Sono tornate a fiorire le ginestre/ con lingue gialle sotto il sole/ parlano solo americano/ le persone venute a scoprire / i propri morti…”, e anche i due versi bellissimi dedicati a Italo che è morto e “ha lasciato occhi dolenti / e candide ali di libellule/negli ulivi assetati di sole”.
Sono tante le persone scomparse chiamate per nome, a partire dal figlio Antonio, in una attuale Spoon River dove alla descrittività si sostituisce il lirismo perché sono morti amati e noti, sono brandelli della propria esistenza, zolle della propria terra e urla: “vienici incontro donna/ tutta nera vestita di digiuni/ e di janare gente di creta/ si spegne tutta ignuda/ gridando di cancro in ospedale.”
I poeti cantano per i più cari e gli sciacalli intanto gridano, e rapiscono i figli colti nel mezzo della giovinezza, così come hanno rapito il figlio del poeta che solo pensando all’eterno sa darsi pace, perché nella morte c’è pulsante il suo contrario, vita che manca, vita che non si potrà scaldare. Darsi una speranza costa una fede incrollabile ma l’uomo nella sua fragilità “barcolla sul malpiede” e scopre che “a questo male/ non c’è perdono”. Ed è proprio nell’appendice, dedicata alla sua terra, che D’Alessio trova le parole più sconsolate (pag. 60) e più amorose (pag. 48) e più vivo sente la sua impotenza a mutare il corso degli eventi (pag 49). In queste liriche le immagini sono visioni, sono vere e metaforiche, talvolta semanticamente violente, ma la compassione non è negata neppure a se stesso, anche faticata: “torna / pietoso il suono/ a ricordarmi uomo”.

v. anche la recensione di Massimo Sannelli

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