domenica 9 agosto 2009

Su Figli di Vincenzo D’Alessio

nota di Massimo Sannelli

Vincenzo D’Alessio non ha bisogno di esegeti, ma di lettori. Tutto quello che si deve dirne è implicito nella scrittura: l’amore per iInserisci link Figli, la gloria dell’«arida terra meridionale», la pietà per chi lavora e per i morti. E poi: una dizione senza limiti, che può andare dal colloquio all’enfasi, senza problemi. In questo momento della vita i termini non sono più termini, ma confini acquosi, sciolti dalla punteggiatura usuale.
Io non sono nulla per parlarne pro o contro. In teoria, dovrei abbandonare lo slancio scritto, quando appare: all’asino (io) appartiene solo un’enfasi vitale, forse, o una proliferazione di identità, quindi di libri. Il suo sInserisci linkpazio è l’aria: una zona di discesa, non di permanenza [di qui la disperazione, appena il peso si impone]. Dovrei essere lontano da Vincenzo, il cui spazio è acquatico, illimitato e permanente – ma non è così. Il Sagittario, cioè l’asino, ammira i Pesci, che dicono «Voglio sperdermi in mille energie».
Questa scrittura è contemporaneamente paterna, fraterna, amica. Il padre mostra la terra al figlio, e lo addestra a sopportarla, se è un buon padre. Il fratello mostra al nuovo arrivato una comunità e una somiglianza, se è un buon fratello. L’amico, se è amico, precede la domanda e offre ciò che non viene chiesto. Quindi può permettersi la libertà delle libertà: scrivere ciò che vuole, come vuole, con lo stile che vuole, superando la domanda con l’offerta. Così Vincenzo D’Alessio può scrivere sull’«eterno», sul «destino» e sul «Sud equinoziale», come se in Italia non esistessero un materialismo sperimentale e un crepuscolarismo stinto, contestatori dell’«eterno» e dell’intensità. In un sistema naturale, cioè preletterario, il padre il fratello l’amico ideali stabiliscono rapporti non scolastici, senza scambio. Nessun altro potrebbe essere una «guida scalza», se io mi perdo: hanno troppo da prendere, da difendere, e da uccidere.

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