giovedì 30 luglio 2009

dall’introduzione al canto I dell’Inferno


di massimo sannelli

«Per selva ignota d’aver guida curi»!, secondo Francesco da Barberino (Documenti d’Amore, v. 3737). Francesco banalizza la complicazione di Dante, di cui è contemporaneo: quando vai nel bosco – un bosco reale – cerca una guida. E sempre nel senso letterale, che interessa al moralista e allo scienziato: «Se vede l’uomo da la via smarito, / va inanti a lui e la via li mostra, / finché ritorna nel camin sentito»: il soggetto è l’elefante, che è intelligente sopra ogne animal, secondo Cecco d’Ascoli (L’Acerba, vv. 2848-2850), e guida l’uomo. In una selva ignota, ma reale, la guida deve essere come l’elefante: un’intelligenza rispettabile. Il bosco di Dante non è reale, ma la «guida» dell’«uomo da la via smarito» c’è.
OPPURE, meno letteralmente: la selva oscura è anche la depressione di chi «parlava di letteratura, era il suo campo» (Büchner, Lenz). Styron, scrittore e paziente di psichiatri, cita i primi versi della Comedìa: «la più potente metafora di questo abisso incommensurabile», che è la depressione. Dunque la selva psicologica è oscura. Jamison, psichiatra e paziente di psichiatri, innamorata della poesia, scrive: «il mio pensiero si fece tortuoso» (la «diritta via era smarrita»), «l’oscurità» – selva oscura – «si insinuò nella mente e presto persi completamente il controllo. Non riuscivo più a seguire il corso dei miei pensieri» (di nuovo: la via smarrita). Il dolore di Lorenzo Lotto si chiama «oscuro psichico» (Testori), ed è il «male oscuro» di Gadda e Berto; e il pensiero è la via, ma un buco scuro non è né una via né una vita: è solo una fossa. La fine della guerra, dopo l’«esilio in patria» dell’antifascista, è il ritorno «alla luce del sole, dalle oscure tenebre della coscienza» (Bigongiari, 1945): la notte del mondo è la depressione del mondo – dunque dei suoi abitanti –, quando il Toro ingiusto si arma contro l’Ariete giusto, secondo la visione di Montale. E la depressione di Lenz è quella di un «dannato in eterno» (nell’Inferno del diavolo, senza grazia): «ora si trovava sul margine dell’abisso» (anche questo è l’Inferno, senza conforto), «dove una voglia folle lo spingeva a guardare dentro continuamente». L’esprit malinconico di Baudelaire – lo spirito o la mente – «si esilia in una foresta» (Les Fleurs du Mal, LXXXIX). Ho citato poeti, poeti, poeti, e lettori di poesia, per la fedeltà – non da oggi, e non solo da un passato prossimo – all’idea che queste scritture siano anche una Scrittura simultanea, che trascende i rispettivi autori.
OPPURE: bisogna vedere il doppio senso dei dolori selvatici, quando né la guida né l’elefante sono ancora apparsi. Il lettore abituato alla poesia duecentesca – cioè allo stesso Dante della Vita nova – riconosce sùbito le parole-chiave di due campi conformi: lo stile lirico dell’amore e l’amore dei poeti. Questa selva è oscura, come uno stile disperato o difficile, o come le oscure qualità e la vita scura di chi soffre per amore (Vita nova, 9, 7, v. 2; 24, 6, v. 6). La selva è aspra, come il parlare di chi ama una Pietra-donna. La selva è forte, come l’Amore che viene a dominare Dante bambino («un dio più forte» fa «tremare fortemente» lo «spirito della vita»: Vita nova, 1, 5). La selva è amara, come è amaro, per un gioco paraetimologico, l’amore infelice. La selva è selvaggia: l’esatto contrario di una cosa gentile e dolce. Che sia depressione, avvilimento o devianza (per amore) – e Dante è volubile e non equidistante, come gli dice Amore stesso (Vita nova, 5, 11) –, lo smarrimento fornisce le parole alla psichiatria del futuro e cita il lessico doloroso del presente di Dante (e della generazione successiva: il sonetto CCLXV di Petrarca ripeterà – normalizzando tutto ed eliminando la selva – che il cuore di Laura è aspro, selvaggio, duro).
Per un uso interno alla cerchia dei poeti, il dolore e il modo di esprimerlo sono la stessa cosa; e anche i nomi e le azioni, o le qualità, coincidono: Beatrice dà la beatitudine, Pietra è un cuore di pietra, Primavera è quella che prima-verrà. Il dire e il fare sono coerenti, sempre, anche dove il linguaggio si apre a più evenienze biografiche: una sconfitta intellettuale o poetica o sentimentale; oppure: intellettuale e poetica e sentimentale; e da questa sconfitta il crollo e la perdita di sé, in una selva che è una, due, tre cose, nello stesso tempo.
Alla selva è fedele una morte assurda, di cui Dante parla con pudore e per bocca di altri (Inf., II 61-66 e Purg., I 58-60): nessuna parola è più chiara della parola follia. I suicidi saranno trasformati in una brutta selva, nel canto XIII dell’Inferno: in mancanza di vita, deve mancare anche la grazia (e il dannato che parlerà allora è un uomo di lettere, anche poeta – non a caso).
La diritta via è smarrita – in terza persona: non io ho smarrito, ma la via è smarrita – perché, in fondo, la diritta via coincide con lo stesso Dante, che è la cultura e la poesia. Dopo, anche Dante dirà «fui quasi smarrito» (Inf., V 72), in prima persona, per eccesso di pietà davanti ai morti dell’amore; e parlando a Brunetto dirà: «mi smarri’ in una valle» (Inf., XV 50). Quindi un’intera via smarrita – con un verbo che quasi la personifica: la Via – è una vita nevrotica e ambigua, individuale e di tutti. Se parla lo Scrittore, la via smarrita è anche la degenerazione dell’arte e della tendenza sacra alla poesia. Se è così, il contrario della selva oscura non è una selva luminosa, ma una via diritta. La poesia – cioè il poeta – parla in nome del vero Diritto, il cui attributo è la luce. Se l’analogia via/vita decade – se il professionista delle parole si smarrisce e si oscura – anche la sua poesia diventa vile, oppure tace del tutto. Non solo. La crisi è totale: nello Stato, nei costumi, nella fede e nella scrittura. […]

(commento alla Commedìa di prossima pubblicazione con Fara)

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