prefazione di Luigi Metropoli a Stanze del viaggiatore virale
di Giovanni Turra Zan (Editrice L'Arcolaio, 2008)
Se è il titolo ad orientare il lettore nella ricognizione del senso di un libro, è opportuno partire da esso per seguire le tracce che immettono nella specificità dell’opera.
La terza raccolta di versi di Giovanni Turra Zan, Stanze del viaggiatore virale, offre nel titolo – con allusività propria della poesia – la chiave d’accesso alla materia lirica.
Le stanze oltre che a spazi fisici – sale d’attesa, pareti domestiche, luoghi in cui il poeta si ritira per comporre – rimandano ad una possibile forma compositiva, ad uno statuto poetico, indugiando sul carattere rematico più che tematico. Siamo catapultati, dunque, dal mondo reale, fisico, al non-luogo della poesia. La stessa figura del viaggiatore è apparentata a quella del poeta, come s’intuisce man mano che ci si addentra nel testo. L’idea del viaggio è il filo conduttore della raccolta, declinandosi in molteplici modi, arricchita di varie sfumature: precipuamente si riconosce come metafora della vita e, ad un grado ulteriore, come viaggio nella scrittura.
Infine il virus, l’infezione che s’insinua sottotraccia, come motivo nettunico, non del tutto emerso, e che nella linearità del percorso agisce da fattore contrappuntistico ed elemento perturbante. A sua volta il virus non rimanda unicamente ad un contagio biologico, ma al degrado della specie umana, abbrutita dalla società meccanizzata dei consumi, e di conseguenza allo sfascio delle capacità relazionali nonché dello strumento che più di altri presiede a tale capacità: la lingua. Il suo inaridimento è dovuto principalmente alla marginalizzazione che vive nel nostro tempo la parola poetica, quell’intricato complesso di significazione che va al di là della mera funzionalità veicolare: in tal senso l’impiego comune, strumentale, della lingua ridimensiona la sua forza, la sua dimensione antagonistica, immunizzandola. L’infezione, il contagio, semmai, avviene per eccesso di edulcorazione, per oblio di quelle caratteristiche intrinseche della lingua atte a svelare, a portar fuori dall’occultamento, a sottrarre al non-detto, al non-dicibile, a-ciò-che-non-si-deve-dire (si veda a tal proposito G. Marano, La parola infetta).
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Le stanze del viaggiatore virale sono la sintesi dialettica di un percorso poetico cominciato con Senza (Agorà Factory editore) e proseguito con Il lavoro del luogo (in Pubblica con Noi 2007, Fara Editore). Laddove il primo libro si fonda precipuamente sulla speculazione, su un travaglio interiore vissuto lungo «sentieri delle perdite e della rottura delle relazioni» (dalla premessa d’autore al volume), il secondo s’impernia su un’esperienza meno metafisica, ma ugualmente universale: il lavoro (e se si leggesse il titolo al rovescio, sulla scorta del frequente tic all’inversione, tipico del dettato di Turra Zan, lo si assumerebbe a monito e profezia, in netto anticipo rispetto al bla bla dei politici intorno ad un tema delicato, ma da affrontare immediatamente, come le morti bianche e la progressiva perdita dei diritti da parte del lavoratore), facendosi carico di denunciare l’abietta mercificazione del tutto, la sempre più abbacinante alienazione dell’uomo e automazione che l’Occidente e il mondo intero tollera e, anzi, promuove.
Gettando lo sguardo dall’interno all’esterno si è aperta una divaricazione che questo libro sapientemente colma. È un approdo, questo, frutto di una progressiva maturazione stilistica dell’autore e di una più chiara presa di coscienza dei propri mezzi espressivi.
Nella breve presentazione a Senza, Turra Zan racconta: «Quando iniziai a scrivere questi versi, lo feci in luoghi di passaggio: biblioteche, treni, stazioni ferroviarie, bar». Scopriamo che il nomadismo è una cifra dell’esistenza di Giovanni, da tempo, e lo scrivere un’attività che trova nel viaggio il suo stesso nutrimento. Quindi, ancora: viaggio e luoghi.
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Quanto Stefano Guglielmin scrive ne La mancanza che fonda, prefazione alla prima silloge, circa l’impiego che Turra Zan fa della metafora, è non solo applicabile allo stile di Stanze del viaggiatore virale, ma sembra addirittura più appropriato: «Anche Giovanni Turra Zan assume la metafora quale sommo laboratorio alchemico, ma capovolge il dettato tesauriano, mutando il concetto astratto nel corpo franto delle cose, così che i principi e le leggi del costume s’incarnino nella materia stessa della vita». L’aderenza al concreto è, anzi, tale da suscitare in chi legge un legittimo sospetto circa la deliberata scelta dell’autore di lasciare nell’ombra ogni possibile motivo-spinta. Il procedere di Turra Zan è massimamente ellittico: egli mostra l’aridità dei nostri tempi attraverso piccoli e, apparentemente, secondari dettagli (il dio che paga in mastercard falsificata, le polveri e gli scarichi, i prestiti, un mutuo amore che costa rate e ricicli). Giovanni tesse la sua rete di versi con sapienza. Guida con mano, attraverso calcolate inversioni e dosati rimandi fonici, il lettore nelle stanze del disastro che quotidianamente si consuma ai danni dell’uomo, evitando di mimare il grigiore post-contemporaneo con un verso piatto e amorfo: egli ne approfondisce la tessitura prosodica, tendendolo fin dove il respiro può reggere agevolmente nella lettura ad alta voce e nel contempo vi innerva i cascami (i rottami) di una società malata.
La misura del verso, il ritmo compassato, esprimono l’angosciante naturalezza con cui oggi si continua a mortificare l’umano in favore del profitto. Tuttavia in ciò non v’è distacco: la figura della madre, una novella, commovente Maria; il ritratto di un uomo che combatte un’inesorabile malattia comunicano, senza patetismi, l’attenzione e la cura del poeta verso le cose che ancora valgono, quei piccoli gesti, quelle elettive affinità che restituiscono credito all’animo umano.
Il dettato di Turra Zan è la composta – ma non per questo meno critica – accusa al totem del consumo, è un monito contro quell’infezione (la più grave della nostra era) che ormai contagia tutti. Ne risente la stessa poesia. Se il primo testo introduce alla lettura «tra pagine di quaderno», aprendo metaforicamente il viaggio nel corpo del mondo e della parola, l’ultimo, centrato unicamente sul virus e sul contagio cui è sottoposta ormai anche la lingua, è definitivo: dice, per l’ultima volta, «il senso/ della capitolazione al silenzio».
1 commento:
Caro Alessandro, sei un amico meraviglioso!
Un abbraccio e un ringraziamento grandi!!!
Tuo Gianfranco
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