recensione di Teresa Armenti
(in basso l’articolo di Vincenzo D'Alessio apparso su «Solofra Oggi», febbraio 2008)
scheda libro qui
v. anche Antonella Russoniello – Cosimo Caputo – Vincenzo D’Alessio – Luisa Alaia – Simonetta De Bartolo – Carla De Angelis e le altre recensioni ivi linkate
Dalle pagine patinate, desiderose di tenere carezze, di lievi tocchi magici, esala un canto sommesso, soffuso di malinconia, sospeso tra silenzi che sanno d’infinito, colmo di vuoti.
È un canto, che si inebria dei profumi dell’Irpinia, si colora dei cieli del Sud, si culla nelle onde.
È un canto ondulato, levigato, variegato; si perde nei sogni a notte fonda, gorgheggia all’alba “appena tinta sui cocci di velluto”, si eleva al cielo “arancione di lacrime”.
È sinfonia in autunno, lieve ritmo in inverno.
E i pini, le querce, gli ulivi, i tulipani, i cardi, le ginestre, i ginepri, le gardenie si inchinano al suo passaggio, che si prende tutti gli echi della natura sommersa.
È il canto della solitudine “screziata di limo”.
Ma Antonietta Gnerre, l’autrice della raccolta, non è sola; c’è Dio che si manifesta “nell’orbita della fede piombata sullo stelo” e con la sua mano disegna il vento dell’amore sui cuscini della vita.
Dal silenzio emerge una voce sottile, timida. È la voce dell’anima, che viaggia sul binario celeste e ricama stelle; ne osserva le pupille tra i singhiozzi dei monti. La voce, dopo un iniziale smarrimento, prende forma, accarezza la pila dei ricordi, si articola in parole che diventano ora rottami, ora leggere “bagnate di solitudine”, ora vagabonde, ora galoppanti nella selva dei cipressi; le parole riescono anche a mangiare “oro nel chiostro gravido di luce”.
E la luce trasforma tutto, dà vita alle cose inerti, fa intravedere rubini, diademi, gemme, scolpisce le rive, disegna cerchi, tanti cerchi concentrici, dove la Nostra, abbandonandosi fiduciosa, intravede sfere di speranze e l’eterno che profuma di mimosa e sovrasta il mare del tempo. Nel lembo di eternità, la Gnerre si perde a “squarciare il cielo, sperando di restare incollata nel fiato riflesso degli ulivi”. Allora, con passo leggero, col pennello intinge e tinge, spalma e lucida, zufola, ruota, accarezza, insegue “il sole sdraiato sull’orizzonte.”
È una poesia particolare, quella di Antonietta Guerre: senza titoli e segni di interpunzione; la si può definire alla “D’Alessio”. Spetta al lettore il compito di leggere d’un fiato o stabilire le pause e il giusto ritmo. Si avverte un certo disorientamento, ma quasi nel mezzo, accompagnati da un sottofondo musicale segnato dalle allitterazioni e dalle assonanze, appaiono i fili conduttori della raccolta “Poesia”, “Prata”, “Mia nonna”, “Polvere di pensieri”, “Frammenti di viaggio”.
Il suono delle campane nel gran giorno di festa a Maria Santissima Annunziata riporta la poetessa a Prata, il suo paese nativo, fonte di ispirazione dei suoi scritti. La Gnerre ama la sua terra, ma soffre per le condizioni del Sud, da lei definito “il duro Sud”, “il Sud dei tormenti che tace dietro le sbarre”; la sua sofferenza è tale che il suo cuore si spacca quando vede intorno a sé le miserie del mondo. Si scaglia contro i pedofili “lontani da ogni verità, con mani viscide e piedi senza orme”, ma le mamme sono pronte a “sfondare col vento dell’amore la tela delle violenze”. I ricordi si affollano nella sua mente e si disperdono nel grande cielo soffocato di cirri. Mentre le lacrime scorrono copiose, le viene in soccorso la nonna, “la sentinella che l’accompagna nella terra della fede con i piedi fasciati dalle sue preghiere”. Allora si pone in ascolto e prega intensamente, dovunque si trovi, anche nel cimitero degli Ebrei. La sua preghiera diventa un sussulto breve, intenso, con pause tra i singulti. Antonietta Gnerre si sente “legata ai pali del tempo, il buio dell’universo”; nonostante tutto, riesce a sognare “nuove onde di stagioni” e affida alla poesia i suoi pensieri, che brillano di luce interiore.
(cliccare sulle immagini per ingrandirle)
1 commento:
Ciao e buona dopmenica. Maria
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