martedì 28 gennaio 2025

Gina Cafaro su Incroci on line recensisce “la poesia del sangue” di Vincenzo Mastropirro

Vincenzo Mastropirro, “Se mi conosci…”

Posted  on: 25/01/2025

Vincenzo Mastropirro, Se mi conosci…

Fara Editore, Rimini 2024

di Gina Cafaro

Lì dove può, la poesia traguarda vette di una intensità tanto struggente da far male, come una rosa che incocca la sua spina. Sono fra gli esiti migliori della raccolta Se mi conosci… di Vincenzo Mastropirro, ruvese di nascita e bitontino di adozione, poemusico ― come ama definirsi ― molto attivo sui due fronti della poesia e della musica, spesso melangiati, così come accade per l’uso della lingua e del dialetto.

Il titolo del libretto rimanda all’ammonimento di una madre, al suo “bada bene”, da un lato, e dall’altro al rovello di un figlio intorno ad una conoscenza che più intima non si può, eppure è aperta a sempre nuove interpretazioni e resta sospesa su un vuoto sempre da colmare. La conoscenza che si invoca è quella che sulle strade del sangue è in grado di percorrere l’abissale distanza e l’abissale prossimità del rapporto madre–figlio, quella conoscenza che arriva, infine, come condizione ed esito, allo stesso tempo, della fatica poetica. Una conoscenza che può prescindere dalle parole, forse, ma non dalla poesia del sangue. Al centro si accampa un mi in cui si situano il soggetto e l’oggetto insieme, che trapassano fluidamente l’uno nell’altro come solo fra mamma e figlio.

Alla madre è rivolta la passione del “tu”, che appassiona e fa patire, ma crea un rapporto indissolubile che buca il visibile. Il principio di realtà, denso, robusto, sfocia nell’enigma dell’amore. Certo, come racconta nell’Introduzione, all’indomani della perdita l’autore ha staccato la penna dal foglio e ha lasciato trascorrere alcuni anni: si è preso, alla fine, la distanza temporale che salva, quando salva, se salva…

La madre ha una pianta, la madre e la sua pianta, la madre è la sua pianta («La chjande, …/ la vole vedaje…// La chjande, u è sapìute / ed è fadegòte ‛nzìme. Assè»): i possessivi si spostano e fluiscono l’uno nell’altro senza discontinuità, senza barriere: in questo campo, forse in ogni campo, tutto è uno. Ma le mamme sono figlie di altre mamme («Ho sovrapposto / il volto di mia madre a quello di sua madre.»): se c’era una pianta è diventata la pianta madre, madre di generazioni che portano a spasso il sangue e compiono destini.

Intorno alla madre scomparsa si intonano i carmi beneauguranti di accompagnamento alle nozze, si ricompone il cerchio delle presenze familiari, Gina, Silvia, Michele ed Erika, guardati con occhio tenero e acuto, che lavora a sbalzo le figure o le diluisce nella corrente delle parole e della musica, prima che arrivino le trame dell’oblio e gli inevitabili vuoti.

Il Se mi conosci… si riflette allo specchio e la morte, maestra di riti, insegna a inanellare le generazioni, al di là del capire, oltre il capire, anche senza capire… («Sto cullando mia madre / con le note di una lunga ninna nanna /…/ loro ascoltano, imparano, la cantano con me senza capirla»). Non solo, incredibile a dirsi e da dirsi solo a mezza voce: la morte diffonde, sparge, dissemina bellezza: «e gli occhi fascene ’nammeròte cu taiche / con te, trovano sguardi di bellezza». Il poeta avverte tutto il pudore del canto: si può cantare solo in una terra libera. Qui il canto va e viene dalla gola al sorriso della madre, alla terra, alle zucchine, alle parmigiane.

Mettersi nei panni della madre vuol dire fare l’esperienza della scala, ogni scala, che si allunga, mentre i gradini diventano tanti, si moltiplicano, le gambe cercano e perdono i piedi, impossibile salire, impossibile scendere, si allunga la scala e a somiglianza di quella di Giacobbe dà la scalata all’infinito. La scala si arrampica fino al cielo e compie il miracolo: retta da chi possiede la radice del tempo, inaugura il volo.

Piena è la vena surreale, incisa dal dolore e le contorsioni immaginifiche e verbali ne seguono da vicino i contorcimenti. La ferita segue strade impervie e sconosciute, segue il suo destino, mentre ci si destreggia con lunghi nastri di candide bende.

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