lunedì 10 giugno 2024

“l’afflato di una continuità nel tempo, oltre il tempo e lo spazio dati”

Alessandro Ramberti, Non so resistere, Prefazione di Luigino Bruni, Epilogie di vari autori, Rimini, Fara 2024


recensione di Maria Lenti




La poesia di Alessandro Ramberti, anche in questo suo ultimo e recente Non so resistere, chiede  attenzione e preme un ascolto da fibre poste in una sottile e intensa spiritualità.  


Se ad una prima lettura il pensiero arriva compresso da un non detto prevalente sull’esplicito, il ricamminamento dei versi, meditato, fluidificato dal bianco della mente del lettore, rilascia la lieve aspirazione alla limpidezza esistenziale, esistenziale ma di grana fine, di una interiorità allargata come dono a chi fa silenzio dentro di sé per far entrare l’altro.

In questa interiorità hanno la loro dimora il filo della riflessione sui destini umani e il ri-capare tale filo verso un fine, ricondurlo ad una fine, che è principio: l’eternità non ha confini, non ha un inizio né una conclusione. «Dov’è per te / l’eternità / per la tua carne / per il tuo fiato // appena tiepido / che teme sempre / di sconfinare? / Adesso bastano // pochi scomparti / a incasellare / il tuo universo / ma sai che poi // non dureranno / neanche i ricordi / soltanto i gesti / lasciano impronte» (p.66). Ma prima dell’eternità, nel tragitto tra il suo essere senza principio e senza fine, i gesti sono anche il male, le cadute, gli stravolgimenti, le gioie effimere, l’illusione vanesia, la delusione cocente, il peso quotidiano: vederli nella loro essenza non per negarli ma per tenerne i fili e temerne la preminenza insuperbiente: «Gli occhi si staccano / dal cuore quando / il male è ovunque / nella catastrofe // ma a volte colgono / bagliori intimi / si fanno ciechi…» (p. 74). Si cade, ci si rialza (p. 75): sempre, tuttavia, si è attratti dall’assoluto (ibidem).

Non è facile la poesia di Alessandro Ramberti, calata in Non so resistere in quinari per quattro strofe in tutta la raccolta, che offre in fondo ad ogni pagina la traduzione in esperanto. (Lingua universale e, dunque, particolarità di un ben considerato valore). Intendendo per “facile”, non la immediata comprensibilità o scorrevolezza per subito afferrarne il proposito, quanto l’adesione al suo intrinseco senso. Un senso che rimanda ad essenze di una religiosità (non connotata storicamente o canonicamente) che avvolge l’essere umano, lo attende, lo sollecita, lo sprona, lo chiama, lo spinge. Ecco, un senso non nella dimensione di ogni lettore, di tutti i lettori, di me lettrice.

E però non si può, non posso non condividere la tensione verso altro che non sia materia e riscontro, l’intento di alte certezze insomma: come accade quando, pur seduti in gradini di un tenore tutto umano e visibile, si sente, si avverte, si sa il vivere dei propri simili, di molti dei propri simili, necessitato e sospinto da un afflato che dia o abbia in sé l’afflato di una continuità nel tempo, oltre il tempo e lo spazio dati, oltre la caducità, oltre la vita in materia.

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