mercoledì 16 febbraio 2022

Dell’ineguaglianza, con due note su J. L. Borges e Samuel Johnson (An Shan)

 

‘In the Shades’, disegno di Samuel Johnson e James Boswell di Max Beerbohm, 

1915 (Dr. Johnson’s House Trust, London)



Vanità delle scienze. La scienza delle cose esterne non mi consolerà dell'ignoranza della morale nel tempo dell'afflizione, ma la scienza  dei moti del cuore miconsolerà sempre dell'ignoranza delle scienze esteriori. (Pascal, Pensieri, 23-67)


Ma c'è un altro principio di cui Hobbes non si è accorto; un principio che, dato all'uomo per raddolcire in certe circostanze la ferocia dell'amor proprio, o, prima che questo amore nascesse, l'istinto di conservazione, tempera l'ardore che nutre per il suo benessere con un'innata ripugnanza a veder soffirre il proprio simile. [...] Parlo della pietà... (J.-J. Rousseau, Discorso sull'ineguaglianza) 

 

                                                               ...e anche se il giudice chiuderà un occhio 
                                                                     non potrò fare altrettanto 
                                                                     affetto come sono dall'incurabile
                                                                     imperdonabile malattia
                                                                     della pietà.  
                                                                     (E. Montale, "Una malattia", Poesie disperse)


...l'uomo, il quale in terra è la sola creatura che Iddio abbia voluto per se stesso, non [può] ritrovarsi pienamente se non attraverso un dono sincero di sé. (Gaudium et spes)



 



1. 


Questo mondo è confusing. Scusate la parola inglese. Un altro elemento di confusione, diciamo. Mi spiego: da un lato hai due donne, pare delle zingare, con sacconi di tela sporchi, vestiti per terra, un bassotto sporco al guinzaglio, doppi tripli giubbotti macchiati addosso. Dall’altra, proprio di fronte, hai un grande negozio luccicante, pregno di buone sensazioni, di pulizia e di sorrisi indifferenti, un negozio qualsiasi, con le vetrine ben allestite, scritte metalliche, più o meno di lusso. Che farne di questo accostamento? Prima, camminando, ad esempio, c’era uno seduto per terra, all’entrata di un parcheggio sotterraneo; anche lui borse dell’esselunga legate alla meglio a fianco; era mezzo sdraiato, sporco in volto, spettinato; e mi ha guardato passare. Intanto uno passa insieme ad altre decine di persone, con le sciarpe ben infagottate dentro al giubbotto, che magari senti parlare della cena, o che si salutano — Buonasera, a domani. Cos’è domani per quello lì che mi fissa mentre passo, come fosse una specie di animale appartenente ad un altro mondo? Uno non ci capisce molto. Passa e va avanti. Insomma, l’ineguaglianza. Parola astratta se ce n’è mai stata. È un labirinto teorico, e in evidenza incancellabile di fronte agli occhi.

     Ora, mi posso mettere a fare una ricerca intorno a questa parola. Parlarne, ascoltare gli altri. Leggere libri. Secondo un mio criterio arbitrario, naturalmente. Ma parlerei, allora, dell’ineguaglianza? Avrebbe un oggetto la parola, rispetto a me? Girerei intorno alla cosa. Ma andargli incontro in modo diretto è faticoso e doloroso. Allora come fare? Del resto, il mio sguardo è già contaminato dalle letture sperdute che in un momento o in un altro mi hanno lasciato un qualche segno. Filtriamo tutto attraverso l’esperienza personale, anche quella letteraria. È quel che chiamiamo memoria — qualcosa di vivo e presente. Avvicinarmici con la scrittura significherebbe accettare di non raggiungerlo, di perdermi, o semplicemente di non farcela; di fallire; di arrivare da tutt’altra parte. Scrivere vuol dire, in un certo senso, fuggire. O avvicinarsi a qualcosa. Mentre camminiamo, ad esempio, si possono scrivere prose e poemi a più non posso, comporli sulla pagina della mente. Perdersi in un certo dettaglio, come il contrasto urbano dell’ineguaglianza, inseguirlo, farsi mandare dalla visione parole, una dopo l’altra. Fuggire con la mente. È fuggire?

    

Sono entrato in uno di questi negozi l’altro giorno. Di vestiti. Non potrei dire se una marca conosciuta, perché non sono del mestiere, ma piuttosto rinomato. Lo stile essenziale, ricercato e moderno lo facevano intendere. Ma specialmente i prezzi degli indumenti, e la loro scarsità negli scompartimenti in confronto all’ampiezza del negozio. Due signore spagnole — mi parvero madre e figlia — mi passano davanti. Penso di essere io il fantasma, e invece mi accorgo dello sguardo vuoto della figlia, mentre segue la madre verso il piano inferiore. Aveva una giacca di pelle, una borsetta con una lunga catena dorata, jeans e delle scarpe nere con le suole alte. Le punte dei capelli tinte di viola scintillavano magneticamente mentre scendeva per le scale grigie.



2.


Non ci sono molte vie d’uscita: le cose sono così come sono davanti a noi. Forse scrivere vuol dire anche fermarsi. A volte dire che il dolore fa male è già qualcosa — è già un tentativo di agire e di non fuggire. Il problema è che viviamo in un epoca e in una società non solo complessa, ma confusa e confusionale. Difficile districarsi da questa rete. Posso enumerare qualche tentativo con cui ho cercato di farlo.


Certamente leggere e scrivere. Forse. Sono un ragazzo cresciuto in paesi di un migliaio di anime, per lo più lontano dalla civiltà urbana e dai suoi obblighi. Intorno a me avevo un giardino grande, in una grande casa con pochissimi libri per lo più rinchiusi in altissimi armadi irraggiungibili e ignorati. In qualche modo la raggiunsero Topolini e Geronimi Stilton, niente di più. Per il resto, si potevano imparare a fare cose altrettanto utili – a sputare il più lontano possibile, o andare in bicicletta senza mani, a fischiare con i fili d’erba, costruire capanne in campi appena falciati, lavarsi le mani con i fiori di lavanda dopo aver fumato, avventurarsi in fabbriche arrugginite, abbandonate, oppure a perdere interi pomeriggi su una panchina rinsecchita in un angolo desolato e familiare, tra campi arati e un santuario di periferia. Non potersi decidere se andare a piedi o in bicicletta in cima alla collina, per la strada sterrata, fermarsi ad un certo bar per la via. ("E fora äd scola, a cà / pär imparär al rest"..., da "Oc luster" di Renzo Pezzani).  

    Credo di aver avuto, come altri, una vita protetta e appartata, in questo mondo oscuro (nel senso dell’urbanità) o più o meno chiuso in se stesso, fino al liceo. Allora sono stato lanciato in mezzo alla città più grande della regione, non ancora quattordicenne, mingherlino e con gli occhi quasi limpidi (chissà). Certo più limpidi di un ragazzo di città. Uno capisce di essere in un posto strano anche solo guardando i lampioni che pendono a dei semplici portici, enormi. Le loro colonne non fanno molto strano: ci si aspetta da delle colonne di essere colossali. Hanno questa ambizione anche nelle piccole chiese di paese. Ma lampioni di quel genere, mai. E i vicoli? Mai visti vicoli così lunghi, stretti da palazzi così alti. Ci si sente infinitamente più piccoli, e si è eccitati e confusi ad un tempo. Ecco le prime tracce della confusione. Non esiste solo casa tua, la scuola, la casa di qualche amico. E montagne lontane nel paesaggio. Viste da più vicino possono impressionare, specialmente se non ce le si è mai immaginate, vedendole, come nel caso di quelle naturali, da lontano, le Alpi, dal piccolo paese di pianura in cui ero cresciuto. 

    Dico quei palazzi dell’altezza dei silos per cereali, o di una chiesa. Però non dediti alla conservazione dei cereali, e quindi al consumo oppure alla produzione di una qualsiasi cosa, né alla venerazione per qualcosa di più grande: ma nudi e semplici unicamente per la vita degli uomini. Una mostruosa costruzione fine a se stessa, la città. Cioè fine all’uomo. O fine… a niente?



3.


Il sindaco-frate Giorgio La Pira, di certo non sarebbe d'accordo, lui che esortava ad amare le "città come parte integrante, per così dire delle vostra personalità." "Ogni città racchiude in sé - diceva - una vocazione ed un mistero: voi lo sapete: ognuna di esse è da Dio custodita con un angelo custode, come avviene per ciascuna persona umana. Ognuna di esse è nel tempo una immagine lontana ma vera della città eterna." 

     Forse è questione, qui di avere un'altra logica. Lo si ripete da chissà quanto, quella della gratuità: della custodia di un bene che non è soltanto nostro. Passeranno gli anni, e chissà a chi servirà, questa casa che costruisco oggi. Ma il confine del nostro panorama esistenziale, per forza o per scelta, si è ristretto, si restringe. Mi viene in mente un articolo che George Orwell scrisse per il Tribune, nel 1946, "A Good Word for the Vicar of Bray". Esso partiva da un aneddoto abbastanza triviale - Orwell, visitando il cimitero della "piccola chiesa del Berkshire di cui un tempo fu ministro il celebre Vicario di Bray", vi vide "un magnifico tasso che, secondo un avviso ai suoi piedi, fu piantato nientemeno che dal Vicario stesso". Il Vicario di Bray, vissuto nell'inghilterra del sedicesimo secolo (e anche protagonista di canzoni e drammi popolari), è famoso per essere stato quello che diremmo un vero e proprio voltagabbana: eppure, scrive Orwell, "dopo tutto questo tempo, ciò che rimane di lui è una canzone comica e un bellissimo albero, che ha potuto dare riposo agli occhi di generazioni e deve aver sicuramente superato qualsiasi effetto negativo prodotto dal suo collaborazionismo politico." 

    Infatti, la semplice tesi dell'articolo è riassunta poco dopo queste parole, che "a volte le azioni degli ingiusti possono dimostrare di essere piuttosto buone, passato l'opportuno lasso di tempo." Così, scriveva Orwell in conclusione:


"Recentemente sono stato alcuni giorni al cottage dove vivevo, e ho notato con piacevole sorpresa – per essere esatti, la sensazione era quella di aver fatto del bene inconsciamente – il progresso delle piante che seminai una decina di anni fa. Penso che valga la pena riportare quanto alcune di esse mi costarono, soltanto per mostrare cosa puoi fare con qualche moneta se la investi in qualcosa che cresce."




4.


Liang Qichao, un famoso intellettuale cinese vissuto a cavallo del ventesimo secolo, tra la fine della dinastia mancese e la nuova repubblica, verso i trent’anni sentì l’esigenza di raccontare la sua vita fino ad allora. Io ne ho ventisette, e non sento altro se non l’esigenza che la mia vita abbia un senso. Di nuovo.

     Tendo a evadere il problema da cui sono partito. L’altro giorno un amico proveniente dal Centro America, che non sentivo da una manciata di mesi, mi ha scritto: I know life happens. Il tempo passa, la vita accade. Siamo attraversati irreversibilmente dalle cose. E anche questo tentativo di fermare il tempo fallirà. Anche questo tentativo di autodenuncia, di fermarmi. Tutto continua a scorrere, impetuosamente. Senza curarsi troppo di me – e il breve attimo di benessere e riposo di cui ho potuto godere sembra essere una gigantesca, incomprensibile oasi che per qualche miracolo ha retto, che dura tutt’ora contro ogni logica. Però è totalmente priva di moralità. Questo sembra essere l’incongruenza più imbarazzante ed evidente della nostra epoca: nell’epoca della democrazia, dell’uguaglianza e dei diritti universali, l’amore pare essere, questa tra le cose più immeritate, il criterio, la fonte di ogni moralità, una specie di dato trascurabile o ignorato, un’ombra superflua, una bugia, o piuttosto uno schema, una tabella, qualcosa su cui è possibile accordarsi, contrattare. Un fatto biologico, un bisogno materiale. Naturale. Nella nostra epoca il bene e il male non hanno alcuna spiegazione, pretendono di non averne, e questo è un ossimoro, una bugia a sua volta perché la moralità è proprio il tentativo di spiegare, di dire che cosa è una cosa o l’altra, nel silenzio delle nostre azioni, nel campo devastante, fresco, della prosa, della vita quotidiana. 




5.


Segnalo di sfuggita un libro curato da poco da Cinzia Bigliosi per Edizioni Ares, Re di un’ora & altri testi inediti di Irène Némirovsky: particolarmente i “capitoli ritrovati” del primo dei due pannelli (“Temporale di giugno”) che ci sono pervenuti dell’ultima opera della scrittrice francese di origine russa, Suite francese, narrazione della tragica occupazione tedesca della Francia durante la seconda guerra mondiale. Chi ha letto la versione apparsa in Italia nel 2005, saprà della già particolare forza del racconto della vicenda di un membro della famiglia Péricand, padre Philippe. La Némirovsky, per ritrarre questo personaggio, che in quella versione faceva morire per via di una improvvisa ribellione da parte di un gruppo di adolescente di cui era accompagnatore (“I più grandi avevano scoperto un mobile bar: lo spinsero nel salone a suon di pedate; quando lo aprirono, videro che era vuoto. Ma non avevano bisogno di alcun vino per essere ubriachi: la devastazione era sufficiente per loro, ne traevano una gioia atroce”), si era ispirata a un curato di campagna che aveva conosciuto personalmente, padre Roger Bréchard, e a cui era particolarmente legata - essendo il primo, come riporta la curatrice, “al quale Iréne confidò di volere ricevere il battesimo”, e che fece da padrino per lei e le sue figlie. In quella versione, tuttavia, la figura del padre finì per essere tratteggiata come quella del“ figlio prete della tipica famiglia borghese, un po’ ridicolo” d’aspetto, e attraversato da dubbi di fronte a quella prima difficile prova. 

     Revisionando l’opera, alla fine del 1940, Némirovsky ricevette la notizia della morte in battaglia di padre Roger, il quale aveva combattuto come tenente “alla testa di due mesi reparti della sua compagnia”, affrontando “disperatamente quattro autoblindomitragliatrici e trenta carri armati tedeschi”. La notizia sconvolse Irène, che decise di riscrivere da capo i capitoli dedicati al personaggio a lui ispirato, il pescatore di anime. Tradotti da Cinzia Bigliosi in questo libro, e comparabili per la forza della narrazione a quelli precedenti:


"Che diritto aveva di dire: «Quello è degno di Gesù, questo no!». Che cosa ne sapeva lui della Grazia? E se stava agendo, chissà, forse a sua insaputa, in uno di quei cuori? Bastava un sospiro del Crocifisso, un battito d'ali di uno dei Suoi angeli perché quella carne soda fosse trafitta dalla Grazia. Povera carne! Com'è infelice! Come soffre! Come trema!..."




6.


Scrivere e leggere, dicevo. Queste rispecchiano la realtà, e la realtà ci trafigge.  È intorno a questo problema che mi dovetti arrovellare a un certo punto, senza volerlo. Verso i diciannove anni. Scrivevo un lungo romanzo strano, una serie di pezzi di confessioni, pagine di diario, aneddoti passeggeri, storielle, legate da un protagonista muto e triste, immerso in un mondo proprio e parallelo, un tale Thomas, riflessioni, soprattutto e sempre di più intorno ad un tema centrale – se la vita vera sia quella di città, veloce e gettata continuamente verso un punto nel futuro, o se ci fosse un’alternativa, e – domanda delle domande – se ci sia un senso, un significato nella vita di un uomo. Allora ero infatuato di Kundera, avevo scoperto pochi anni prima L’insostenibile leggerezza e tutte le altre coppie di opposti intorno a cui si svolge la vicenda di Tomaš e degli altri personaggi del romanzo. 

     

Certamente, il racconto mano a mano era finito per essere una cronaca del tipo: descrizione dei miei fallimenti incluso quello che perpetro continuando a scriverne. Mi accorgo ora che – per quanto sappia che il genio tenda a esprimersi con gesti che non hanno nessun tipo di utilità, un inseguimento fine a se stesso, o fine semplicemente alla cosa inseguita – era un girare a vuoto, un arrovellarmi su me stesso. E su una domanda principale, a cui non riuscivo a dare una risposta. Pensando che la vaghezza del racconto, dell’arte, potesse supplire alla mia domanda morale, sempre più pressante ed evidente. 

     Abisso della superficie, che ci scandagliano, più che viceversa, io mi appendevo alle mie parole. Giravo e rigiravo su me stesso; e giunsi infine a quel punto. Cos’è il bene e cos’è il male? Una domanda che disorienta, scioccante, a pensarci. Che fa rabbrividire. Fu il penultimo dei capitoletti, perché quello dopo lo iniziai soltanto, e non riuscii a finire di scriverlo. A dire il vero, smisi di scrivere per un bel po’. O costruire trame e racconti di fantasia. Non mi sarebbe più stato possibile, o facile, scappare dalla realtà: un esito impensato considerando che il mio sogno era di diventare un romanziere. 

     E non è facile tutt’ora. Torno qui davanti alla pagina con le stesse paure, inespresse, di finire di nuovo in un simile labirinto. Come nella vita, stare da soli in una stanza può dare sollievo e spunti per ripartire; può essere occasione di riflessione costruttiva, di perdono, riassestamento; come anche il contrario: un’amplificazione di tutti i problemi e le ansie che abbiamo in un dato momento, o la peggiore delle occasioni per ricadere in una certa tentazione, tornare a sottolineare una debolezza o una mancanza. Faremmo di tutto pur di scappare da noi stessi. Fino a quando non troviamo qualcuno a cui dire, o gridare le nostre preoccupazioni, ciò che sentiamo. Una persona concreta di fronte a noi, che ci pone davanti all’evidenza, che sia essa più o meno sopportabile; che, in certi momenti, possiamo anche essere noi stessi, soli in una stanza, oppure di fronte ad una pagina bianca, come sono io ora. Mentre scende la sera, senza che me ne accorga, ricadendo vittima della convinzione popolare per cui attraverso il lavoro l'individuo possa trovare una specie di salvezza personale (convinzione che rappresenta uno dei nodi della crisi della nostra epoca, come mi conferma la lettura di un recente libro di Aldo Schiavone, Eguaglianza, ed. Einaudi: "La fine irreversibile del lavoro moderno ha scavato un abisso fra individualità ed eguaglianza, mandando definitivamente in rovina un rapporto che comunque era stato sempre difficile e precario." È d'interesse, a proposito, anche il libro di Mario Ferraresi, sul tema della Solitudine: il male oscuro delle società occidentali, Einaudi, 2020) – in ricerca di una brillantezza che non ha niente a che vedere con quella della carità, "vincolo di perfezione" (Col 3,14).

     È stata, è una lotta per la mia moralità. 



Note


7.  J. L. Borges


Mi prendo la briga di tradurre un brano da una conversazione di Borges con Antonio Carrizo, dalla raccolta Borges el memorioso. Conversaciones de Jorge Luis Borges con Antonio Carrizo (Fondo de cultura economica, Mexico-Buenos Aires, 1982, p. 82). Mi è capitato di ascoltarlo per caso qualche giorno fa, surfando, pigreggiando, come mi capita, su YouTube. Borges, nel suo spagnolo masticato e incalzante, cita, ad un certo punto, una considerazione tratta dalle Vite dei poeti di Samuel Johnson (che anche riporterò in traduzione più sotto; da The Lives of the Poets: A Selection, tr. di John Mullan, Oxford University Press, USA, 2009, p. 61). Due brani esemplificativi che non mi aspettavo di incontrare insieme (del resto, conosco e ho letto poco Borges, anche se ho appena scoperto che a Johnson, e all’autore della sua celebre biografia, James Boswell, dedicò una lezione nel 1966: vd. La biblioteca inglese. Lezioni sulla letteratura, Einaudi, 2006). Ecco la conversazione tra Carrizo e Borges, che parte da una semplice domanda (o esortazione):


Carrizo. Ora scegli un romanziere, Borges.

 Borges. Joseph Conrad. Senza esitazioni. Non ci può essere alcuna esitazione.

Carrizo. Quindici anni fa mi disse Platone.

Borges. Be’, ero più spiritoso di oggi (ride). Naturalmente anche lui è un romanziere, naturalmente. Perché la filosofia è tutta finzione, in realtà.

Carrizo. Ha inventato un grande personaggio, chiamato Socrate, mi disse.

Borges. Ah, sì. Anche drammaturgo, sì. Ha anche inventato gli archetipi. . .

Carrizo. E gli Evangelisti, mi disse anche quel giorno. . .  

Borges. Sì. Vero. Ma ora che stiamo parlando sul serio. . . 

Carrizo. Conrad.

Borges. . . .penso che Conrad sia indubbiamente. . .

Carrizo. Non Melville?

Borges. No, perché credo che Conrad sia eticamente superiore a Melville. Anche se entrambi avevano l'idea del bene e del male, che purtroppo è andata perduta e che è così importante, eh? O meglio, che è fondamentale.

Carrizo. Chiaro.

Borges. Quell’"oltre il bene e il male" è una frase da furfanti, no?

Carrizo. Sì. "È al di là del bene e del male" non è carino.

Borges. No. Vuol dire che è figlio di una poco di buono, giusto? (Sorride). Detto in altre parole.

Carrizo. È lo stesso essere immorali che amoralo?

Borges. Ma. . . Non so se si possa essere amorali. Penso di no. Intendevo. . . Non so se sai, o se ricordi, che Milton aveva una scuola. In quella scuola insegnò – parlo del secolo XVII – naturalmente, grammatica, latino; ma insegnava anche scienze naturali, insegnava astronomia. E allora il dottor Johnson, nella sua eccellente biografia di Milon, in Vite dei poeti, dice che Milton si sbagliava. Perché l'uomo, dice, raramente è botanico o astronomo, e invece, ogni giorno, in ogni momento, è moralista. Significa che ci si trova continuamente di fronte a una circostanza che deve essere risolta in un modo o nell'altro. E allora uno è un moralista. Al contrario, dice, la funzione dell'uomo sulla terra non è di osservare la crescita delle piante o il corso delle stelle; ciò accade molto raramente, se mai accade. . .





8.  Samuel Johnson


Nella sua biografia di John Milton (1608 – 1674), il Dr. Johnson narra gli eventi a partire dai primi decenni della vita del poeta inglese (i due erano, del resto, come spiega Borges nella sua lezione, agli antipodi rispetto alle proprie posizioni politiche). Lasciata l’università di Cambridge, dopo aver speso anni in studi autodidattici, Milton partì per un Grand tour in Francia e in Italia, che decise di interrompere per via dei fermenti che di lì a poco avrebbero portato alla guerra civile inglese, ai quali voleva dare il proprio contributo. Tornato in Inghilterra, accompagnò l’attività di polemista con l’insegnamento, diventando istruttore privato. 


“La nostra venerazione per Milton – annota Johnson – non ci impedisca di guardare con una certa ilarità alle grandi promesse e ai piccoli risultati, dell'uomo che si precipita a casa, perché i suoi connazionali si contendono la libertà e il cui patriottismo, raggiunta la scena dell'azione, svanisce nell’istituzione di un collegio privato. Questo è il periodo della sua vita da cui tutti i suoi biografi sembrano essere inclini a ritrarsi. Non vorrebbero che Milton venga degradato a maestro di scuola; ma siccome non si può negare che insegnasse a ragazzi, uno scopre che insegnava per nulla, e un altro che il suo era solo zelo per la propagazione della cultura e della virtù; e tutti raccontano ciò di cui non sono certi, solo per scusare un atto che nessun uomo saggio considererà di per sé vergognoso. Suo padre era vivo; la sua indennità non era ampia; e con un onesto ed utile impiego provvedeva alle sue deficienze.”


“L’intenzione di Milton, – continua Johnson – a quanto pare, era di insegnare qualcosa di più solido della comune letteratura insegnata nelle Scuole, leggendo quegli autori che trattano di argomenti fisici, come le Georgiche, e i trattati astronomici degli antichi. Questo era un progetto d’educazione che sembra aver impegnato molti innovatori delle  lettere di quell'epoca. […]

      Ma la verità è che, la conoscenza della natura esteriore, e le scienze che tale conoscenza richiede o include, non sono affatto l’occupazione principale o più frequente della mente umana. Sia che ci cimentiamo nell'azione o nella conversazione, sia che desideriamo essere utili o piacevoli, il primo requisito è la conoscenza religiosa e morale del giusto e dello sbagliato; il secondo è la familiarità con la storia dell'umanità, e quegli esempi che si può dire incarnino la verità e provano con gli eventi la ragionevolezza delle opinioni. Prudenza e Giustizia sono virtù ed eccellenze di tutti i tempi e di tutti i luoghi; siamo perennemente moralisti, ma geometri solo per caso. Il nostro rapporto con la natura intellettuale è necessario; le nostre speculazioni sulla materia sono volontarie, e libere. L'apprendimento fisiologico emerge così raramente, che un uomo può vedere passare un’altra metà della sua vita senza essere in grado di valutare le sua abilità in idrostatica o astronomia; mentre immediatamente appare il suo carattere morale e prudente. […]

     Non mi si accusi per questa digressione di pedanteria o paradossalità; perché se ho Milton contro di me, ho Socrate dalla mia parte. Era suo compito trasformare la filosofia dallo studio della natura alle speculazioni sulla vita; ma gli innovatori a cui mi oppongo stanno distogliendo l'attenzione dalla vita alla natura. Sembrano pensare che, siamo qui per osservare la crescita delle piante, o il movimento delle stelle. Socrate era piuttosto dell'opinione che, ciò che dovevamo imparare era piuttosto, come fare il bene, ed evitare il male.


che male e che bene nel tuo palazzo è avvenuto (Omero, Odissea, IV, 392)”




Congedo



9.  J.-J. Rousseau


“Tale è in effetti, la vera causa di tutte queste differenze: il selvaggio vive in se stesso; l’uomo socievole, sempre proiettato fuori di sé, non sa vivere che nell’opinione degli altri, ed è, per così dire, soltanto dal loro giudizio che trae il senso della propria esistenza. Non rientra nel mio tema il dimostrare come da una tale disposizione nasca tanta indifferenza per il bene e per il male, insieme a tanti bei discorsi di morale; come, riducendosi tutto all'apparenza, tutto diventa finzione e commedia: onore, amicizia, virtù e spesso gli stessi vizi, di cui si scopre infine il modo di gloriarsi; come, in una parola, chiedendo sempre agli altri ciò che siamo e non osando mai interrogare in proposito noi stessi, in mezzo a tanta filosofia, umanità, educazione e a tante massime sublimi, finiamo solo con l'avere una facciata ingannevole e frivola, onore senza virtù, ragione senza saggezza, piacere senza felicità." (J.-J. Rousseau, Discorso sull'ineguaglianza, parte seconda)



10.  Giorgio La Pira 


"Ed infatti, cosa è l'integralismo dottrinale? È la somma di due carenze: pigrizia mentale, da un lato, incapacità assimilatrice dall'altro. [...]

    Si pensi a tutta la storia complessa e drammatica del pensiero moderno: da Cartesio a Rousseau, da Kant a Hegel ed a Marx.

    Tutto da rigettare? Nessun profitto, nessun apporto per la crescita della verità?

    Una risposta siffatta non è davvero conforme alla visione genuinamente cattolica della realtà: la visione davvero cattolica è aperta, ha compensione pronde, non è manichea. Essa sa che nelle cose dell'uomo vi è sempre una mescolanza, una impurità: ma sa pure che c'è dell'oro in mezzo al piombo, della luce in mezzo all'ombra, del vero inviscerato nell'errore. [...]

   Certe verità sono conquiste definitive, si sa: ma ogni verità è come un seme: destinato ad ampliarsi, a ringiovanirsi sempre!

   Essere tomisti non singifica essere vecchi: singifica essere giovani come è permanentemente giovane la verità: bella sempre, seducente sempre! E se sono veramente tomista, io posso e devo inquadrare nel mio sistema, far rinverdire sul mio tronco, i tralci che stacco da altri sistemi, errati nell'insieme ma veri in qualche parte.

   E questi tralci che faccio rinverdire nel mio sistema e che rinverdiscono il mio sistema..." (Giorgio La Pira, Fermento educativo e integralismo religioso, a cura di Fulvio de Giorgi, Ed. la Scuola, 2009, pp. 51-52)



11.  Don Giussani


"Da che cosa è determinata là realta storica in cui siamo immersi? Dalla prevalenza dell'etica sull'ontologia. È il giudizio che Giussani formula alla fine degli anni Novanta. Si trattava per lui del culmine di una traiettoria iniziata secoli prima, con l'epoca moderna e con il dilatarsi dell'influsso razionalista, che plasmò l'atteggiamento della cultura e dello Stato verso il cristianesimo e la Chiesa. Da lì in avanti il primato dell'etica rispetto all'otnologia diviene fattore generale. Nella scia di una separazione e gerarchizzazione di conoscenza matematico-scientifica e conoscenza filosofica (e religiosa), la concezione del reale e dell'esistenza viene sempre più determinata da comportamenti, da 'preferenze': non dalla ragione, dalla realtà come si rende evidente nell'espereienza, ossia dall'ontologia, ma, eticamente, da un comportamento a partire dal quale si usa la ragione. 'Anche la Chiesa, attaccata dal razionalismo, ha sottolineato al popolo e nella sua teologia l'etica, dando come presupposta l'ontologia, quasi obliterandone la forza originante.'" ("Prefazione" di Julián Carrón a Luigi Giussani, Dare la vita per l'opera di un altro (1997-2004), Rizzoli, 2021)



12.  Charles de Foucauld


"Sia il bene sia il male attecchiscono dentro di noi in maniera molto più estesa e profonda di quanto si possa sospettare all'inizio. Per me, è una legge dello spirito: ogni bene deriva da un bene precedente; così come qualsiasi male si alimenta di un altro male. Nella vita spirituale è necessario conoscere il bene passato su cui si basa quello presente, così come il male antico su cui si poggia l'attuale. Solo allora rendiamo giustizia a quanto ci accade, e soltanto con un simile atto di giustizia onoriamo la verità. Detto in altri termini: nessuna grazia è concessa se un'altra non la precede. La nostra anima possiede una storia, e ciò che chiamiamo 'vita spirituale' consiste nel ripercorrerla."


"...il compito non era affatto facile, e non ce l'avrei mai fatta senza la compagnia e l'aiuto dei beneamati Dom Louis e Dom Martin, fratelli di sangue e religione. Loro mi hanno aperto gli occhi su come il mondo cerchi sempre di convincerci dell'ambiguità dei fatti, ovvero, che non è possibile valutarli in alcun modo. Ma chi inizia col perdere la morale, finisce per perdere anche la religione." (Pablo d'Ors, L'oblio di sé, Vita e Pensiero, 2016)



13. Dorothy Day


"Going to confession is hard. Writing a book is hard, because you are 'giving yourself away.' But if you love, you want to give yourself. [...]

The sustained effort of writing, of putting pen to paper so many hours a day when there are human beings around who need me, when there is sickness, and hunger, and sorrow, is a harrowingly painful job. I feel that I have done nothing well. But I have done what I could." (Dorothy Day, The Long Loneliness, 1952)



14. Schopenhauer


“Il principio intorno al quale tutti i moralisti sono veramente d’accordo, suona: neminem laede, immo omnes quantum potes juva [non far male a nessuno; al contrario, aiutali il più possibile]. Questa è propriamente la tesi che tutti i moralisti si affaticano a dimostrare... ciò che si ricerca da secoli come la pietra filosofale, è il vero fondamento dell’etica.” (Citato in Augusto Del noce, Il problema dell'ateismo)




Disegno di Renzo Pezzani, da Bornisi (1939)

Luca 6, 47-49


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