mercoledì 26 gennaio 2022

La luna si perde nel mare. Quando la poesia è femminile

Un’ipotesi di recensione al farsi poesia
di Carla De Angelis


Tutto il tempo sul petto

Poesie (2006-2021)
Prefazione di Stefano Martello
Fara 2021


di Gianpaolo Anderlini






La scrittura è femminile.

Lo scritto è maschile.

La lettura è femminile.

Il libro letto è maschile.

La poesia?

La poesia è solo femminile, altrimenti non è poesia.

Il verso rigido e ritmato, figlio di regole e di ritmi, paludato e declamato, quello è maschile e spesso violento.

Poesia non è scrivere versi.

Poesia è generare sorriso e dolore.

Mescere nel calice bianco/tutto/vuoto il vino nero/nulla/pieno:


“Riempio il bianco di parole nere

con un punto giallo di sole

invento un brindisi

accumulo speranze e migliaia di bugie

suoni, gesti e sorrisi” (p. 143).


Parole nere e spazi bianchi.

Dov’è la poesia?

Nel golfo mistico e nel fuoco che divampa dal detto e dal non detto, dal nero che si fa bianco e dal bianco che i fa nero; nel giallo che divora tutto, infiamma e consuma, perché la luce non sempre illumina, spesso (troppo spesso) appiattisce e rende uniforme il vivere, toglie la profondità e genera ombre nell’attesa del nero della notte.

Dov’è la poesia?

È nella banalità del quotidiano, nel farsi e nel disfarsi attimo dopo attimo della vita e delle cose, nell’aggrapparsi ad ogni atomo di vita senza sperare che l’attimo che viene dopo l’attimo presente sia migliore o sia peggiore; è solo un altro attimo a cui donarsi forse in solitudine forse inchiodati ad altre vite:


“Quotidiano fatto di panini, caffè, gelati

libri da leggere riflessi di parole

sbocciate tra il bianco della pagina

e il nero dell’inchiostro


La sera il mio cane

il mio anima-le riempie di gioia la poltrona

di amore l’ombra che il buio cancella” (p. 168).


C’è bisogno di anima anima-le perché il respiro (ogni respiro) è il soffio che ci tiene desti e ci permette di navigare verso il mattino sapendo che non ci può essere il respiro del mattino senza il canto muto della notte:


“Valico il muro ogni notte

il respiro armonizza con il corpo

che non trattiene nulla

cementa mattoni per

il futuro (o per domani?)” (p. 107).


Ma è la notte il luogo del femminile?

Carla dice: “Scrivo di notte” (p. 141), forse perché il giorno chiama altrove e non lascia spazio all’emergere di ciò che siamo o che vorremmo essere; il giorno è pesante e ci confonde perché possiamo fuggire da noi stessi o nasconderci nei fatti e nei misfatti della vita; la notte no:


“Ho frugato tutto il giorno –

dicevo al vento – è notte oramai

è stato un brutto sogno aver sognato di cercare” (p. 166).


E ancora:


“Ciò che desidero è rimasto annodato


lo scioglierò la prossima notte” (p. 198).



Ecco, allora, che dalla notte emerge uno dei luoghi del femminile, la luna (e l’altro è il mare):


“Non amo ricordare le singole giornate –

la notte dice del tempo

della solitudine della luna

che attende il sole per avere un amico

non sa che quando c’è lui

lei dovrà scomparire” (p. 201).


E forse non c’è canto più bello alla luna di questo che dice del nascondersi e del mostrarsi, del pudore e della malizia, dell’esserci e dello svanire:


“Lascia un intero giorno alla luna

schiva mostra un poco


poi maliziosa svela il volto

pudica si nasconde ancora


lavora per risplendere la notte

più forte la sorprende il giorno


ingoiandola nella sua luce

l’illusione si allaga nel sole


Un altro giorno per prepararsi

un altro giorno per svanire” (p. 66-67).



Il ritmo dei distici, caratteristico delle prime raccolte di Carla, unisce e separa, ingloba e distingue e alla fine ci trascina in “un altro giorno per svanire”, come la luna, come l’attesa, come la vita nel necessario ciclo inverso giorno/notte.

Forse, davvero, siamo come la luna. Di giorno ci prepariamo alla notte e di notte mostriamo volti e toni diversi, in crescendo e in calando, nascosti e palesi, pieni e vuoti, in una luce che affascina perché non abbaglia.

Nero e bianco (ancora):


“Il tempo procede

insieme alla notte


avrei cura della luna


mi addormenterei

nel bianco del giorno” (p. 68)


Forse che si vive più di notte che di giorno?

Può darsi, forse perché solo la notte è luna e “la luna si chiude a spicchio e sogna per noi” (p. 135).

Può darsi, forse perché solo la notte ci fa capaci di ritornare a noi stessi e in noi stessi:


“La pigrizia di questa sera

è il mio spazio per ammirare il cielo

colmare di senso i passi della giornata

risvegliare nel buio ricordi e rimorsi


Entrate in questo spettacolo gratuito a cercare la luna

che governa il mare, la terra e quel seme

di gioia appena ritrovato” (p. 175).


La luna, luce e dea del femminile, tiene unite in un comune ciclico destino le tre voci del femminile, in noi e nel mondo: mare, terra e seme.


Mi fido del mare, titolo e programma di vita e di ricerca.

Sono annegato anch’io in un mare di parole e non sono morto, forse perché anche io mi fido del mare (un altro mare, il piatto Adriatico) e sono l’onda che si frange e trasforma tutto in sabbia. 

Il tempo scorre e tutto si fa eterno.

Nel mare, ci si immerge, si nuota, si fa a gara con le onde; si ritorna bambini, feti che giocano e respirano nel liquido amniotico.

Il mare è sicurezza materna.

È il luogo in cui si nasce e in cui si tornerebbe per morire (e forse rinascere di nuovo). 

È tenerezza liquida e spumosa e senza il mare saremmo solo fango impastato:


“Amo così tanto il mare

che vedrei azzurra anche la morte

se mi cogliesse mentre nuoto

verso l’altra sponda” (p. 176)


Il mare non ti chiede chi sei, ti accoglie, ti culla, forse ti tiene in ostaggio e non ti lascia raggiungere la riva; sembra indifferente perché “Il mare ripete la sua onda/mai stanca di andare e tornare” (p. 73), ma l’onda non è mai uguale e tutto si perde in un azzurro che si confonde con il cielo e che sembra farsi cielo e il cielo mare; e tutto sembra amore, gioia e una carezza che cancella le lacrime e il dolore.

Ma il mare quando non è a-mare, quando è una via impercorribile e si fa maschile di muro, di rifiuto e di violenza diviene morte e tomba indifferente:


“mille braccia chiedono pane e un letto

che non sia il mare” (p. 176).


E ancora:


“Il dramma è quella carretta troppo carica

Il mare la inghiotte poi ripete la sua onda” (p. 126).


È indifferente il mare o lo siamo noi?

La domanda Carla la pone in altro modo: “siamo ancora buoni?” (p. 81). 

Il mare che inghiotte le vite è solo specchio della nostra indifferenza, della mano chiusa che non accoglie, del ghigno che respinge; della verità che si fa menzogna, perché “Non è la conoscenza è/ l’assenza di verità che uccide” (p. 89).


Se il mare è ma(d)re dalla parte del figlio, la terra è madre (la dea madre) e porta il seme che germina e poi cresce in solitudine, e sente il peso della mano dell’uomo, a volte amica e troppo spesso ostile.

La terra, vista dalla terra e non dal cielo, è fatica e sudore, l’infinito sforzo di chi la vuole solo per sé e lei che è solo terra, da sempre e per sempre terra, genera figli e figlie che non sono nostri e per noi:


“Profonde ferite

Fendono la terra

La gramigna

Soffoca il grido alla pioggia

Il contadino

La strappa con furore

Urla a struggere il cielo

La malerba dissetata più cresce” (p. 41).


La terra vista dalla terra è incanto, magia dei luoghi e del silenzio, della vita che continua sempre, lo sguardo come di bambino stupito che si perde nel bosco e non ha paura:


Andavo per funghi, camminavo piano

osservavo il vento penetrare il bosco


piano per non svegliare

il sonno sotto le foglie


lasciavo i funghi alla terra

andavo per provare l’ansia


di non ritrovare l’uscita

sentire i battiti impazziti


arrampicarsi sui tronchi” (p. 55).


La terra vista dalla terra è, sotto la coltre scaldata dal sole, freddo che sembra morte ma che è vita e “anche nel freddo la buona terra darà la sua ricchezza” (p. 134). 

La terra vista dalla terra è, prima di tutto, inverno, il gelo necessario che nasconde e che promette a ciò che ancora non si vede di mostrarsi a suo tempo. Non ci può essere primavera senza l’inverno perché “l’epifania della vita è…/ inverno” (p. 39).


La terra vista dalla terra è cura, amore, dedizione, armonia, tempo ciclo che consola, attesa del frutto, sorpresa che si rinnova sempre:


“Posare il pensiero

sul vapore del fiato

curare la terra

prima della semina in campo

non è cibo per lombrichi

umori onesti lo devono concimare” (pp. 107-108).


E ancora:


“Il suono della zappa addolcisce l’umore

cresce l’erba

nascono gattini e conigli

gli alberi fioriscono frutta e lenzuola bianche

perché accolgano attesa e speranza

in una particella di sole si scalda la vita

che cammina

vola

striscia

corre

che non sa quanto tempo resta” (pp. 132-133).

La terra vista dalla terra, dalla parte dell’uomo, è orto, il mio orto, quel fazzoletto di terra strappato alla terra per farsi preghiera quotidiana, un inno che si fa odore e sapore, una sorta di ascesi che ci conforta perché “La cura dell’orto inizia dalle piccole cose” (p. 145).

Non è un caso, forse, che le righe più belle scritte sulla cura della terra/orto siano nella raccolta “Mi fido del mare”, come se terra e mare fossero le due facce della stessa Natura, di quel mondo creato e increato, che era tale prima dell’uomo e che (forse) resterà tale anche dopo l’uomo.

Terra e mare sono inno alla vita perché sfuggono alla logica devastante del tempo lineare dell’uomo che ha smesso di sapere che, come la pianta si rinnova nel seme in un’altra pianta, così anch’egli si rinnova e continua, grazie al seme gettato, in un altro uomo.

L’uomo che è di terra, non è più terra e vorrebbe piegare la terra alle sue mani, ma i semi e le radici conoscono un altro alfabeto, un altro tempo, un’altra dimensione, un’altra strada:


“Disegno una serra

contro il sole la pioggia e gli uccelli

ma il seme provoca la sorte


vuole dormire sotto la neve

sospirare quieto al sole

crescere nel profumo del vento


non sa che saranno le radici

a tracciare la strada” (p. 145).


La terra vista dalla terra è violenza e dolore, perché (da bambini non lo sappiamo ma presto lo impariamo) non c’è vita senza violenza e dolore, senza la condivisione di questa comune sorte che rende vano lo sguardo magico e incantato con cui ancora si guarda il mondo:


“I merli danzano lontano dall’uva

sanno che i tempi non sono maturi

nessuna traccia di succo dolce


Camminando ho udito

una richiesta intima e infinita


Come può riposare il corpo

devastato dalle cose del mondo?” (p. 146)


Questo viaggio nelle parole di Carla potrebbe continuare all’infinito per piegare il tempo e renderci di nuovo parte di quella terra che abbiamo rinnegato e farci di nuovo natura:


“Si tornerà a riabbracciare la sapienza

della natura

ascoltare il Silenzio delle Sirene” (p. 121).



Un’altra tappa ancora.

Il mondo di Carla si specchia e si mostra come un’immagine rovesciata in queste parole:


“Che tu sia madre o figlia

terra albero o fiore

stelo prato o conchiglia

vento uragano o pioggia

sole luna o stella

padre figlio o foglia

grandine perdono o luce

gatto usignolo o tartaruga

lepre bradipo o pernice…


Quanto ti costa la vita?” (p. 209)


La domanda rimane aperta, perché noi non siamo Salomone o San Francesco e non conosciamo le lingue della terra, della natura e degli animali.

Forse, ma non ne sono certo, possiamo solo dire quanto costi a noi (ad ognuno di noi) la vita.


Se la poesia è femminile, la poesia di Carla non è solo il femminile della poesia è metapoesia.

Parole che si piegano, che si com-plicano, che si squadernano e tengono in ostaggio il detto, il non detto e il sottinteso.

Tutto scorre e tutto rimane immoto.

Tutto è luce e tutto è buio.

Tutto è bianco e tutto nero.

Tutto è vita e tutto è morte.

Tutto è dolore e tutto (nonostante) è gioia.

Tutto è certo e tutto è incerto.

Tutto è utile e tutto è inutile.

Tutto è metafora e tutto è metonimia.


Poesia è femminile perché è generare parole che generano parole altre, pensieri che si fanno pensieri al(t)ri; è ritornare terra: “seminati i pensieri alcuni restano impigliati/Altri germogliano” (p. 210), e così forse si può “costruire ponti e godere l’imperfezione” (p. 210).

La poesia è imperfezione!

Scrivetelo!

Gridatelo!

E intanto costruite ponti fatti di parole e di pensieri:


“I pensieri sono ricordi seminati sulla terra

per non dimenticare.

Sono futuro posati su un pensiero di pace” (p. 210).


C’è chi dice (e se ne vanta) che la poesia non serve a nulla.

Forse ha ragione.

Ma così non è per la metapoesia.

Chi non sa costruire e consolare (ammesso che sia possibile consolare) vomita solo sillabe e parole e scopre solo ciò che già sappiamo anche se lo veliamo con l’oblio.

Se la poesia non è rivelazione (o forse disvelamento) è solo un vuoto gioco solipsistico e uno specchiarsi inutile nel proprio ombelico.

Odio l’onfalopsichismo dei poeti e mi lascio trascinare da chi alza lo sguardo e vede il volto altrui e il cielo (e chi lo abita):


“Vorrei scrivere versi ogni giorno

come preghiera che dà luce alle tenebre

con la certezza di trasformare in cigno

l’anatroccolo e le morti bianche e

le morti sul lavoro e le donne uccise

in ardente speranza come puntino che scintilla

poi esplode in un’altra pagina della vita” (pp. 211-212)

E ancora:


“Dalle labbra escono parole

e lunghi silenzi

l’amore sempre” (p. 223)


Cosa può dire di più la (meta)poesia?

Auguriamoci di essere anche noi lettori in grado di “Distillare parole capaci/di camminare tra il bene e il male” (p. 153).


E Dio?

Se la poesia di Carla è metapoesia lo è anche perché, prima di tutto e sopra tutto, è metateologia, dal primo verso all’ultimo:


“Come chiamarti Padre

Se lasci i tuoi figli

Morire di fame?


Se lasci che il dolore

Resti straziante

La preghiera senza ascolto

La Terra senza raccolto?


Come chiamarti Padre?” (p. 37).



E ancora:


“Gli dèi avevano pietà del dolore umano

e ridavano la vita


Un solo dio non può

(una volta Gesù)” (p. 213).


In questa metateologia Dio è debole e forte.

Presente e assente.

Vicino e lontano.

Onnipotente ed impotente.

Trascendente ed immanente.

Ma soprattutto non è complice del male e del dolore che noi uomini produciamo consapevolmente e inconsapevolmente, e soprattutto non è Colui che deve e può riparare questo mondo trafitto e ferito, è dio con la lettera minuscola (ma non per questo meno Dio):


“Una briciola di tempo

Per capire chi separa

La terra dal cielo

Caino da Abele

L’innocenza dalla malizia

Penelope dalla sposa

La comprensione dall’intolleranza

Il mantenimento dalla promessa

dio non è riuscito


A noi una briciola di tempo non basta” (pp. 41-42).


È questo un Dio con cui si dialoga a tu per tu, che viene chiamato in causa (penso ai profeti d’Israele) e che, se è possibile dirlo, deve giustificarsi e farsi altro da ciò che è e da ciò che è stato fino ad ora per noi o contro di noi:


“Fra le nuvole ti nascondi

per pudore o turbamento


come un artista che ha pietà della sua opera


non condividi l’acqua che sa di sale

la mosca sul viso bambino


il cibo nella spazzatura;

non ti accorgi di occhi


che si aprono al mondo

per il loro e l’altrui dolore


Per non vedere

uomini (?) sollevano spavaldi le armi


Ammetti da solo non puoi

manda tuo figlio a seminare salute e rispetto


Non lo crocifiggere

Non spargere altro sangue


Vino e pane

siano cibo del mondo” (p. 62)



Il punto interrogativo “uomini (?)” dice di più di mille parole o di mille trattati di filosofia o di telologia.

Sono davvero uomini costoro che alzano le armi contro altri uomini?

Sono loro ad alzare le armi od è quel dio nel cui nome uccidono?

È possibile una diversa sorte umana?

Di fronte a tanto un solo Dio non può riparare il mondo e l’uomo, e se lo vuole (e lo può) fare mandi il figlio e dia l’avvio ad una storia non più di sangue e di dolore ma ad una storia davvero (e finalmente) conviviale.

Allora, Signore, vieni e discutiamone una buona volta insieme:


“Al Dio che ogni giorno chiamo a giudizio

chiedo di restituirmi l’empatia del tempo andato

e un filo per rammendare

un po’ di acqua e fango

e una freccia che giunga al bersaglio” (p. 176)


Cosa si può chiedere di più a Dio?

Non salvezza e redenzione, ma un cammino di conversione comune e condivisa, quella di Dio e quella dell’uomo, nella consapevolezza che Dio da solo non può né rammendare il mondo, né con acqua e fango impastare un nuovo Adamo, né dare un senso alle” magnifiche sorti e progressive” di questa vuota umanità.

Anche se ci chiediamo se c’è dio (p. 20), anche se non ne sentiamo i passi nel giardino, comunque, creature a sua immagine e somiglianza, siamo sempre nell’attesa di un suo volto, di un suo abbraccio, di una sua parola, di una sua carezza perché possa essere l’emmanuele/dio-con-noi:


“Se vieni adesso

Trovi caos nei pensieri

Svanite certezze

Neanche l’attimo è presente

Porto a casa la notte

Cerco l’anima nel soffice buio

Nell’attesa del giorno

Il pensiero si veste

Si mette in cammino

Preparo la colazione

Anche per Te” (p. 38).


Forse, davvero, tu ed io, possiamo fare pace e se, vuoi (io lo voglio), c’è ancora posto anche per Te.

Possiamo vivere senza o-dio ma non lo possiamo senza (un) dio, anche se troppo spesso ci presenta il conto del nostro esistere (p. 107).


In questa assenza che ancora non si fa presenza, resta solo una domanda, anzi due:


“Chi saprà insegnarmi a morire?

Saprò morire?” (p. 226).


Forse c’è una risposta.

Bisogna imparare ad ascoltare il silenzio dell’erba che cresce per dare parola a quel silenzio e forse altri daranno un giorno parola al nostro silenzio perché nessuno può pensare che le sue parole parlino da sole.

Intanto, Carla, continua a “preparare la parola che non offende/ impastare il messaggio utile/ a riparare la crepa sulla strada” (p. 108)!



26 gennaio ’22

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