Carlo Alessandro Landini, Stanze, Fara Editore, 2018, pp. 176
recensione di Andrea Bedetti, pubblicata su Musicvoice.it
recensione di Andrea Bedetti, pubblicata su Musicvoice.it
È sempre disagevole parlare di altre sfere artistiche, di altri interessi culturali che divengono fattivamente risultato plasmato in chi è già famoso e apprezzato per una sua specifica attività culturale. Come nel caso di uno dei maggiori compositori italiani del secondo dopoguerra, il milanese Carlo Alessandro Landini, che non ha mai nascosto la sua
propensione verso altre forme d’arte e di conoscenza, a cominciare dalla
saggistica e dalla poesia, quest’ultima coltivata come atto di suprema
intimità intellettuale e formale.
L’ultima
pubblicazione letteraria del compositore milanese è proprio un libro che
raccoglie la sua trentennale produzione poetica, almeno quella che si
conosce ufficialmente, dal titolo Stanze, formata esattamente
da 432 ottave in endecasillabi, ossia il verso più puro ed equilibrato
che esista nella poesia italiana, per un totale di circa
tremilacinquecento versi, frutto di un’opera di filtro e di limatura,
visto che l’autore in sei lustri ne ha scritti più di
seimilacinquecento. Ottave che in buona parte rappresentano una
riflessione, un cogitare ritmato su una sterminata serie di letture che
Landini non ha mai abbandonato fin dalla giovinezza e che lo hanno
portato a sperimentare un dono intellettuale che è riservato a pochi,
ossia la concezione della biblioteca come labirinto enunciata da Borges o
lo scrutare spaziale e temporale di una messe di titoli come quelli
consigliati da Hermann Hesse in Una biblioteca della letteratura universale.
La poesia come forma di riflessione, quindi, o ancora meglio come forma
nella quale lo spirito inquieto e insaziabile di Carlo Alessandro
Landini trova un suo compimento, una sua realizzazione che in questo
caso si avvale delle parole, così come nella sua musica le note si
tramutano in una ricerca sistematizzante nella quale far coagulare
influssi che vanno dalle conquiste armoniche della musica medievale fino
a quell’“amore proibito” rappresentato da Darmstadt e dai suoi corsi
estivi.
C’è da
chiedersi quanto coraggio abbia avuto il compositore milanese
nell’affidare agli occhi e alle coscienze altrui riflessioni così
intime, così larvali nella loro purezza costruttiva; c’è quasi la
sensazione che Landini abbia voluto mettersi maggiormente a nudo con
queste Stanze piuttosto che con la sua musica, la quale è repellente a qualsiasi tentativo di intrusione vocale e testuale, una Heliopolis
di jüngeriana memoria nella quale vi sono continui instancabili
richiami a un’età dell’oro del suono. Certo, la tentazione di
evidenziare assiomi, collegamenti, richiami tra la musica del
compositore milanese e la sua via del rifugio poetico è forte, ma se si
volesse ricercare la semplicistica musicalità nei suoi endecasillabi, un
equilibrio sonoro (quello che contraddistingue il suo corpus
compositivo) si farebbe solo un torto alla sua onestà intellettuale, al
suo entusiasmo di ricercatore, alla sua curiosità di instancabile
lettore, ma soprattutto si mancherebbe di rispetto al suo pensiero, alla
sua capacità di usare le parole come senso di proiezione dei suoi sogni
e dei suoi desideri, che trovano per l’appunto forma in un lessico che vuole essere altro da ciò che è convogliato nella sfera dei suoni.
Ma
leggendo queste ottave, assaporandone la loro riflessione che diviene
specchio della nostra riflessione, ci si rende conto di avere tra le
mani un breviario estetico (i nomi degli autori, delle opere e dei
personaggi citati supera i duecento) che, nell’atto stesso in cui il
verso si tramuta in un cogitare, diviene dispensario di un sentimento
etico (la concezione filosofica di Carlo Alessandro Landini vuole essere
un superamento della visione kierkegaardiana della sfera estetica, di
quella etica e, infine, di quella religiosa); ecco perché, usando una
metafora visionaria, la sua espressione poetica è la rappresentazione di
John Donne e di Paul Valéry che si stringono la mano davanti alla tomba
di Michel de Montaigne.
D’altronde, la predisposizione, l’offerta votiva che le Stanze vogliono incarnare è di rappresentare un’ideale tour de la librairie,
come quella in cui si rinchiuse volontariamente Montaigne nell’ultima
parte della sua vita, per elaborare il suo pensiero e le sue opere,
circondato dal conforto delle centinaia di volumi che si affacciavano
dalle pareti di quel luogo; allo stesso modo, le ottave del compositore
milanese vogliono essere un altro modo di confortare sia l’autore
stesso, sia il lettore in nome di un passato la cui incarnazione, data
dal lato estetico e da quello etico, si riflette nelle opere di chi è
pregno della dimensione del “testimone”.
E in ciò
Carlo Alessandro Landini, prima ancora di essere un poeta e un
musicista, è fondamentalmente un “testimone”, un umanista che fa finta
di dimenticarsi del tempo presente per attingere instancabilmente da uno
passato, dal quale implacabilmente trae spunti, pensieri, impressioni
da riversare poi in tutto ciò che può essere concepito come forma di
creazione, poiché la caratura che lo contraddistingue come artista è
quella di nutrirsi di un continuo pluralismo che non cessa mai di essere
valore.
La Stanza numero 367 recita testualmente: Il
personaggio mio val troppo poco / a paragone del contemplativo / che
suol negarsi ad ogni benefizio. / Luogo non v’ha né merito ne vizio. /
Una maschera io sono dunque, un essere / fittizio cui non s’apprendono
né / ghiaccio né foco: Sitio, anima mea! / Atroce, troppo atroce è questo gioco.
Che cos’è
in fondo, sembra dirci Landini, un artista se non un essere fittizio che
si traveste continuamente di sguardi e volti altrui, poiché il suo
compito è proprio quello di raccontarli con qualsiasi segno che abbia a disposizione?
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