martedì 18 giugno 2019

Una rapsodia ermetico-esistenzialista di versi nella nuova raccolta di Marco Colonna

Marco Colonna, Ho scritto questo salto, Fara 2019

recensione di Vincenzo Capodiferro pubblicata su Insubria Critica


Ho scritto questo salto è un’opera poetica di Marco Colonna, edita da Fara, Rimini 2019. Marco Colonna è nato a Palermo nel 1964, vive a Forlì. Dal 1999 dirige il portale web sestopotere.com. Cura il canale You-Tube Lotta alle mafie. Ha scritto articoli per vari periodici. Ha collaborato con televisioni e radio. Ha avuto diversi riconoscimenti. Inserito in diverse antologie, con Fara ha pubblicato anche Ani+ma (2016) e Siamo-sono (2017). Marco Colonna è un giovane molto attivo, come si evince dalla sua breve biografia riportata, eppure si presenta, nella sua immagine, come un “solo e pensoso”. Nella sua poesia si respira un’aura di pessimismo, eppure nella vita questo giovane si dà da fare, vive quel nietzschiano nihilismo attivo. Le sue poesie riprendono a grandi linee lo stile degli analogisti ermetici della poetica essenzialista. Questo atteggiamento lo possiamo già trovare nel distico: Disboscare le parole/ tornare al deserto delle lettere. Questo ermetismo, però a differenza di quello classico, è dettato da esigenze pratiche, non teoriche: non c’è più tempo per leggere, per meditare. Il cellulare prende ore ed ore della nostra vita. Il linguaggio cellularesco è neo-futurista. Bisogna correre, anche nella lettura. C’è un forte richiamo al deserto: il deserto ci rimanda ai Padri del deserto. Anche essi usavano un linguaggio essenziale. Certo i vecchi ermetici non avevano carta, dovevano anche essi essenzializzare, ma oggi non è questo il problema, il problema principale è la mancanza di tempo: il tempo fuggitivo che ci avvolge nei suoi turbinosi ritorni.
Come scrive Pietro Caruso nella Prefazione: «La poesia di Marco Colonna è cosmogonica come orizzonte e molecolare come struttura. Per cercare di penetrare la sua poesia bisogna provare le emozioni del funambolo. Mai guardare in basso, procedere a testa alta, asciugarsi le mani con il gesso della razionalità senza grossolanità dell’esistenza greve […]. Una trasposizione orientale che viene dai versi haiku si è fusa con la modernità di Bataille e lo psichismo di Lacan». In ciò lo stile del Nostro somiglia a quello di Alessandro Ramberti.
Nella sezione “Della realtà”, il Nostro prende spunto sempre da morti tragiche, come la caduta del ponte Morandi:

Arresi alla caduta,
saremo urla umane
nel boato di cemento.


Ci offre spunti di poesia esistenzialista che si concentra sull’”assurdo”, sul “tragico” e sull’heideggeriano “essere per la morte”. La morte è un fatto, che pur nella sua assurdità, dà il senso profondo all’esistenza:

La terra ci mangia in fretta…
noi significanti eternamente
in cerca di significato.


Come mai un giovane si interessa così tanto della morte? Oggi la morte è diventata un tabù, come la malattia, io direi: il tabù della croce. L’Europa era cristiana, oggi ci si vergogna di ostentare la croce. L’heideggeriano “essere per la morte”, se non per la differenza non ontologica, ma teologica, si avvicina molto all’ “Apparecchio alla morte” di Sant’Alfonso. Per evitare la croce è più facile l’eutanasia. Eutanasia che tronca le esistenze anche a tredici anni! Ma in che mondo siamo arrivati? Ha trionfato Thanatos su Eros! Se il Signore avesse ragionato così, si sarebbe suicidato prima di Giuda per evitare la croce! La croce, il complesso del dolore richiede il complesso di salvazione. La morte non è più la vedova nera, ma è, come al chiamava Francesco, la nostra sorella più cara. Il problema vero della morte non è la morte prima, o fisica, ma la morte seconda, o metafisica, le “anima morte”. Ci sono così dei viventi che vivono come se già fossero morti e dei morenti, invece, che vivono come se fossero vivi. Così l’ammalato vive la vita nella sua pienezza, quel fil di vita che il dono dell’universo ha ricamato. Se siamo morti dentro siamo come gli zombie parmenidei. Questo è il senso profondo del concetto centrale del “Disessere” in “Mise en abyme”.


Non realtà
non teatro
non mondo
non poesia
non io.
Disessere.



L’essere è chiamata, è vocazione. Se non c’è risposta c’è il Disessere, non l’Esserci, cioè c’è l’esistenza inautentica di Heidegger, cioè l’inesistenza.

E quando il mondo
ci precipita dintorno
sempre ci ritrovi e ci consoli
nel ricordarci cosa siamo: terra e
vita che si regge al mondo.


Ci ricorda un frammento eracliteo: «Per le anime è morte divenir acqua, per l’acqua è morte divenir terra, ma dalla terra si genera l’acqua e dall’acqua l’anima» (fr. 36).
La poesia di Colonna è puramente esistenziale, non ci sono spunti metafisici. E questa è anche un’altra differenza con l’antico ermetismo, come quello, ad esempio, di un Ungaretti. È un pessimismo puro, che non contempla vie di liberazione, come in Schopenhauer, o come nella Ginestra leopardiana: il socialismo, che troviamo poetato anche nella pascoliana Italia proletaria. La pura contemplazione del dolore avviene, però col puro occhio estetico. Come diceva Aristotele, la tragedia purifica l’anima, è catartica. Esserci è più importante che Disessere: anche il Disessere è un essere mancato, un essere mancante, forse anche dei cari estinti. Non ci sono le speranze dei vati dannunziani, dei superuomini, degli oltre-uomini nietzschiani. Lì ancora c’era la metafisica della speranza, qui non c’è niente, c’è la pura espressione del foscoliano “nulla eterno”. Quella molecolarità di cui parlava il Caruso, si iscrive, in effetti, nella ventata postmodernista, che ha avvolto anche la poeticità.

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