martedì 23 aprile 2019

Il Maestro del dettaglio inatteso

recensione di Franco Gallo

http://www.faraeditore.it/vademecum/22-minimivitali.html


Minimi Vitali identifica strutture astratte e dilatazioni di forme che sono contigue o simultanee ad eventi sensoriali (la visione in trasparenza, la sensazione uditiva, il ritorno elastico del passo, la coscienza della mimica o deittica del gesto, la percezione visiva del chiaroscuro, l’appresentazione di persone).
Ciascuna di queste esperienze è colta come dimensione fenomenologica, cioè sintesi complessa nelle quali l’elemento percettivo costruisce il fondamento di un annunciarsi di senso ontologico in presenza e in profondità. In presenza, in quanto ostendersi della concretezza della cosa; in profondità, in quanto la cosa è sempre dentro una struttura di rimando a segno, che oltre al contenuto percettivo ne intenziona anche uno simbolico.

Alla verifica del lettore consegno questa tesi, che per l’economia di questo breve contributo non dimostro: il punto cardinale di tutte le composizioni di Minimi Vitali è uno spazializzarsi della cosa in ostensione rispetto al nostro punto di osservazione, un dilatarsi della sua vigenza d’essere che la fa scorrere verso qualcos’altro e la interconnette al reale.

Così una “sala spenta” si distanzia da un “cortile” che resta “opposto”, designando una discontinuità (e frequenti sono queste giustapposizioni per divaricazione, per disposizione di elementi a fronteggiarsi); uno scavo veduto risulta “concluso” e segna una indipendenza statica e funzionale di un altro oggetto; un “fischio” “resta / aperto nell’aria” e si connota così come processo non terminato di elongazione.

Prendono quindi vita forme geometriche originate dalla Gestalt dell’osservazione, che rispetto alle persone alludono talvolta anche a una spazialità di grado ulteriore rispetto alla materialità delle tre dimensioni, come in occasione di uno “sguardo” che “si solleva” (e come si evince dal prosieguo, a una riflessione interiore).

La succinta raccolta si chiude con quattro versi enigmatici, Arabeske schumanniani (verrebbe da dire): “Tutto ancora per poco… / ma così è scritto / anche quando nessuno vede / quello che non è più”. I versi sembrano assolvere a una funzione di cellula generatrice del testo sfuggita a ricollocarsi nell’insieme ordinato della raccolta (ultimo componimento della sezione “Persone”, ma separato da pagina bianca dal precedente). Il tema, congetturo, è poetologico: Mori  scrive della propria poesia, cioè individua nei suoi versi un contenuto che gli è caratteristico (la trascrizione dell’effimero, la qualità di fotografia rubata del dettaglio inatteso di cui è maestro). Di qui la nostra ipotesi di interpretazione: tutto (quanto scritto prima in versi è) ancora (una volta stato dedicato a qualcosa la cui esistenza è) per poco… / ma così (questo libro) è (stato comunque) scritto (e quindi quelle sensazioni sono salve e riconducibili all’immagine e alla comunicazione a tutti) / anche (oggi) quando nessuno (ormai) vede (come invece all’autore riesce) / quello che (è effimero e deve essere acutamente inseguito e trascritto, perché non è quello che resta sempre, ma quello che, non appena esiste, subito) non è più”.

Per la salvezza dell’effimero che è temporale e istantaneo Mori ha scelto così di individuarne le tracce fantasmatiche nello spazio. Dei suoi molti libri, questo ci pare allora uno dei più coerenti e poetologicamente compatti. Un exercice de style meno ampio di altri lavori per scope (come del resto il titolo annuncia), ma che ci restituisce un carotaggio profondo nella struttura della sua creatività poetica.

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