recensione di Franco Gallo
Minimi Vitali identifica strutture astratte e dilatazioni di forme che sono contigue o simultanee ad eventi sensoriali (la visione in trasparenza, la sensazione uditiva, il ritorno elastico del passo, la coscienza della mimica o deittica del gesto, la percezione visiva del chiaroscuro, l’appresentazione di persone).
Ciascuna
di queste esperienze è colta come dimensione fenomenologica, cioè sintesi
complessa nelle quali l’elemento percettivo costruisce il fondamento di un
annunciarsi di senso ontologico in presenza e in profondità. In presenza, in
quanto ostendersi della concretezza della cosa; in profondità, in quanto la
cosa è sempre dentro una struttura di rimando a segno, che oltre al contenuto
percettivo ne intenziona anche uno simbolico.
Alla
verifica del lettore consegno questa tesi, che per l’economia di questo breve
contributo non dimostro: il punto cardinale di tutte le composizioni di Minimi Vitali è uno spazializzarsi della cosa in ostensione rispetto al nostro punto
di osservazione, un dilatarsi della sua vigenza d’essere che la fa scorrere
verso qualcos’altro e la interconnette al reale.
Così
una “sala spenta” si distanzia da un “cortile” che resta “opposto”, designando
una discontinuità (e frequenti sono queste giustapposizioni per divaricazione,
per disposizione di elementi a fronteggiarsi); uno scavo veduto risulta
“concluso” e segna una indipendenza statica e funzionale di un altro oggetto;
un “fischio” “resta / aperto nell’aria” e si connota così come processo non
terminato di elongazione.
Prendono
quindi vita forme geometriche originate dalla Gestalt dell’osservazione,
che rispetto alle persone alludono talvolta anche a una spazialità di grado
ulteriore rispetto alla materialità delle tre dimensioni, come in occasione di
uno “sguardo” che “si solleva” (e come si evince dal prosieguo, a una
riflessione interiore).
La
succinta raccolta si chiude con quattro versi enigmatici, Arabeske
schumanniani (verrebbe da dire): “Tutto ancora per poco… / ma così è scritto /
anche quando nessuno vede / quello che non è più”. I versi sembrano assolvere a
una funzione di cellula generatrice del testo sfuggita a ricollocarsi
nell’insieme ordinato della raccolta (ultimo componimento della sezione
“Persone”, ma separato da pagina bianca dal precedente).
Il tema, congetturo, è poetologico: Mori scrive della propria poesia, cioè
individua nei suoi versi un contenuto che gli è caratteristico (la trascrizione
dell’effimero, la qualità di fotografia rubata del dettaglio inatteso di cui è
maestro). Di qui la nostra ipotesi di interpretazione: tutto (quanto
scritto prima in versi è) ancora (una volta stato dedicato a qualcosa la
cui esistenza è) per poco… / ma così (questo libro) è (stato
comunque) scritto (e quindi quelle sensazioni sono salve e riconducibili
all’immagine e alla comunicazione a tutti) / anche (oggi) quando
nessuno (ormai) vede (come invece all’autore riesce) / quello che
(è effimero e deve essere acutamente inseguito e trascritto, perché non è
quello che resta sempre, ma quello
che, non appena esiste, subito) non è più”.
Per
la salvezza dell’effimero che è temporale e istantaneo Mori ha scelto così di
individuarne le tracce fantasmatiche nello spazio. Dei suoi molti libri, questo
ci pare allora uno dei più coerenti e poetologicamente compatti. Un exercice
de style meno ampio di altri lavori per scope (come del resto il titolo
annuncia), ma che ci restituisce un carotaggio profondo nella struttura della
sua creatività poetica.
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