Giancarlo Stoccoro, La dimora dello sguardo, Fara Editore 2018, pagine 104, € 10,00
recensione di Lucia Papaleo
Aspettando Prove di arrendevolezza di Giancarlo Stoccoro, in imminente uscita per Oèdipus, riassaporiamo La dimora dello sguardo, penultima raccolta di questo poeta e psichiatra milanese che fa della poesia uno strumento infallibile di vita, di cura, di relazioni e di conoscenza.
Egli ama dire che “le parole della poesia non dovrebbero mai essere troppo ospitali”, che la poesia dovrebbe “accogliere qualche domanda ma non rispondere a tutte”, e lascia trasparire quanto osmotico e sottile sia il confine tra poesia e mente, tra dimora e aria.
Nella Dimora si scorge la struttura portante di ogni altro suo scritto, sia precedente che successivo; i temi che lo appassionano e che tende a sempre a sviluppare, a perfezionare, frutto di instancabile osservazione del contesto che lo circonda; la sua tendenza a stabilire legami con ogni cosa che popola i suoi dintorni. I suoi temi sono luoghi, assenze, alberi, distanze.
Raccontami ciò che sai… ed è subito dialogo tra il poeta e il suo lettore; tra il poeta che non è il detentore della musa, che piuttosto gli viene incontro da fuori, dal lettore che racconta e legge ed è la stessa cosa.
Stoccoro va al di là della scrittura, legge chi lo legge. È dei poeti migliori questa capacità ed è raro imbattervisi. Si resta impigliati nelle sue poesie perché lui ti chiama per nome e tu resti.
Allo scrittore accade di lasciare l’opera a metà, in preda al solipsismo della sua scrittura, finché non arriva il tassello che la completa. E il tassello mancate è il lettore, con la sua personale traduzione.
È questo il dialogo a cui mira Giancarlo Stoccoro, e che arriva quando vuole; l’autore non può farci niente, può solo aspettare e scrutare. Lui è la dimora, lui il fortino da cui parte lo sguardo amorevole che avvince.
Si può anche immaginare che i versi siano scaturiti da eventi molto personali, da amori iniziati e interrotti – meglio se sul più bello – in modo che possa essere il bello la materia da stendere sui fogli.
E se chi entra in possesso di quei fogli si dimentica del poeta e vede scorrergli davanti la vita – la propria o una vita inventata – allora è poesia semplice come il tempo che si stende sulla pelle e sulle cose, che annulla la distanza (parola ricorrente, forse per prudenza e scaramanzia, per non farsi catturare e troppo irretire, per riuscire a mantenere quella giusta).
Si inizia a leggere ostentando distanze, sicuri che non si resterà contaminati, che non si crederà alle ingenuità di un poeta… e invece ci si entra fino al collo, specie se la lettura conduce nei luoghi (altro topos ricorrente) che interrogano ciascuno ad ogni istante, (ogni luogo che raggiungo è un confine / che non smette di interrogare il mondo).
La poesia ci insegue, e noi ci lasciamo raggiungere, prendiamo dimora in ogni immagine, in ogni verso. Parole ci chiamano / assecondano la nostra voce/sembrano portarla chissà dove.
Sono testi brevi, non se ne perde il filo, non ci si perde tra le righe; vi si entra per poi rimanere nel loro senso profondo e semplice. Si rimane dentro la stessa ansia, lo stesso stupore, lo stesso desiderio. A volte m’accorgo in nota / che ti tengo addosso/con un’approssimazione che fa male.
La frontiera labile dell’abbraccio / quel taglio obliquo/impegnato a scoperchiare il mondo. Versi che si nutrono anche di visioni oniriche, considerata la passione e l’interesse scientifico dell’Autore per il sogno. Il più intimo atto dell’individuo, il più solitario, diventa legame tra individui; raccontare un sogno crea un confine, una pelle, che ingloba le persone più diverse che si trovano nello stesso spazio-tempo-compito scoprendo che il sogno è uno solo, che ognuno declina con immagini diverse e proprie, basta solo condividere uno stesso evento che genera emozioni.
La dimora dello sguardo – dentro cui si stabiliscono Lettore ed Autore – diventa il setting di un gioco tra sogno e poesia. Ed ecco la realtà / trasloca / alla fine di un giorno/che ci ha ospitato come tanti altri.
recensione di Lucia Papaleo
Aspettando Prove di arrendevolezza di Giancarlo Stoccoro, in imminente uscita per Oèdipus, riassaporiamo La dimora dello sguardo, penultima raccolta di questo poeta e psichiatra milanese che fa della poesia uno strumento infallibile di vita, di cura, di relazioni e di conoscenza.
Egli ama dire che “le parole della poesia non dovrebbero mai essere troppo ospitali”, che la poesia dovrebbe “accogliere qualche domanda ma non rispondere a tutte”, e lascia trasparire quanto osmotico e sottile sia il confine tra poesia e mente, tra dimora e aria.
Nella Dimora si scorge la struttura portante di ogni altro suo scritto, sia precedente che successivo; i temi che lo appassionano e che tende a sempre a sviluppare, a perfezionare, frutto di instancabile osservazione del contesto che lo circonda; la sua tendenza a stabilire legami con ogni cosa che popola i suoi dintorni. I suoi temi sono luoghi, assenze, alberi, distanze.
Raccontami ciò che sai… ed è subito dialogo tra il poeta e il suo lettore; tra il poeta che non è il detentore della musa, che piuttosto gli viene incontro da fuori, dal lettore che racconta e legge ed è la stessa cosa.
Stoccoro va al di là della scrittura, legge chi lo legge. È dei poeti migliori questa capacità ed è raro imbattervisi. Si resta impigliati nelle sue poesie perché lui ti chiama per nome e tu resti.
Allo scrittore accade di lasciare l’opera a metà, in preda al solipsismo della sua scrittura, finché non arriva il tassello che la completa. E il tassello mancate è il lettore, con la sua personale traduzione.
È questo il dialogo a cui mira Giancarlo Stoccoro, e che arriva quando vuole; l’autore non può farci niente, può solo aspettare e scrutare. Lui è la dimora, lui il fortino da cui parte lo sguardo amorevole che avvince.
Si può anche immaginare che i versi siano scaturiti da eventi molto personali, da amori iniziati e interrotti – meglio se sul più bello – in modo che possa essere il bello la materia da stendere sui fogli.
E se chi entra in possesso di quei fogli si dimentica del poeta e vede scorrergli davanti la vita – la propria o una vita inventata – allora è poesia semplice come il tempo che si stende sulla pelle e sulle cose, che annulla la distanza (parola ricorrente, forse per prudenza e scaramanzia, per non farsi catturare e troppo irretire, per riuscire a mantenere quella giusta).
Si inizia a leggere ostentando distanze, sicuri che non si resterà contaminati, che non si crederà alle ingenuità di un poeta… e invece ci si entra fino al collo, specie se la lettura conduce nei luoghi (altro topos ricorrente) che interrogano ciascuno ad ogni istante, (ogni luogo che raggiungo è un confine / che non smette di interrogare il mondo).
La poesia ci insegue, e noi ci lasciamo raggiungere, prendiamo dimora in ogni immagine, in ogni verso. Parole ci chiamano / assecondano la nostra voce/sembrano portarla chissà dove.
Sono testi brevi, non se ne perde il filo, non ci si perde tra le righe; vi si entra per poi rimanere nel loro senso profondo e semplice. Si rimane dentro la stessa ansia, lo stesso stupore, lo stesso desiderio. A volte m’accorgo in nota / che ti tengo addosso/con un’approssimazione che fa male.
La frontiera labile dell’abbraccio / quel taglio obliquo/impegnato a scoperchiare il mondo. Versi che si nutrono anche di visioni oniriche, considerata la passione e l’interesse scientifico dell’Autore per il sogno. Il più intimo atto dell’individuo, il più solitario, diventa legame tra individui; raccontare un sogno crea un confine, una pelle, che ingloba le persone più diverse che si trovano nello stesso spazio-tempo-compito scoprendo che il sogno è uno solo, che ognuno declina con immagini diverse e proprie, basta solo condividere uno stesso evento che genera emozioni.
La dimora dello sguardo – dentro cui si stabiliscono Lettore ed Autore – diventa il setting di un gioco tra sogno e poesia. Ed ecco la realtà / trasloca / alla fine di un giorno/che ci ha ospitato come tanti altri.
Mantova 3 febbraio 2019
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