Il poeta e
scrittore: “Un verso deve superare e interdire la volgare camicia di
Nesso della parola
comunicativa, di natura volgarmente finalistica, per giungere a un’altra
lingua, mai altrimenti comunicabile”.
INTERVISTA a cura di Rosa Frullo
Qual è la prima cosa che vorrebbe trovare in un libro di poesia?
“Mai l’io del
poeta, e mai me stesso. Vorrei trovarvi l’oblio del soggetto: vorrei trovarvi, cioè, la riproposizione di quel Tempo festivo già descritto, con magnifica cura, da Mircea Eliade: un istante particolare, in cui sempre si rinnova l'eterna scoperta delle cose che è avvenuta, miticamente, in illo tempore”.
Un critico disse una volta che usava un metodo preciso per capire se un
poeta era grande oppure no, valutando tre aspetti: l'abilità nell'arte
amatoria, la dissacrazione della realtà, il patto di sangue con i suoi gatti.
C’è un metodo che lei usa per comprendere il valore di un poeta?
“Lo sguardo artistico dissacra sempre (cioè distrugge e ricrea di continuo) la realtà. Ma che cos'è, la parola d'arte, che cos'è la poesia? Possiamo definirla per sottrazione, o per negazione. Possiamo dire che cosa non è. Ad esempio, se la lingua che il poeta utilizza può essere "riscritta", o ridotta a un abbassamento riassuntivo (o prosastico), o se è nuovamente "dicibile" o ripetibile in altro modo, essa è di sicuro lontana dalla tensione poetica. Il poeta "grande" ha in fondo alcuni limiti: difficilmente, ad esempio, può essere tradotto. Perché non gli è consentito dire la sua parola poetica se non nello stesso inarginabile, unico modo (spesso oscuro, o incerto, o trasversale) che ha voluto, o forse potuto, scegliere.”
Chi sono i migliori critici letterari?
“Coloro che
sanno di musica. E alludo alla musica
d’arte, si capisce, non alla musica canzonettistica dei parolieri (e la
distanza che sottolineo tra i due livelli di intensità e di forza estetica
non ha, certo, un fondamento di “gusto”
o di opinione, ma di natura assoluta, cioè axiologica). Walter Horatio Pater ci
ha ricordato che è appunto la musica l’aspirazione massima di ogni forma di
arte. E la necessità di comprendere la musica, prima ancora delle parole, non
riguarda solo i critici (i quali, sia chiaro, non possono non essere che
artisti: altrimenti, è meglio che si dedichino al giornalismo o alle cronache
sportive), ma anche e soprattutto i poeti. Eppure, proprio i poeti (i cattivi poeti: quelli, per intenderci,
che non conoscono né riconoscono neppure una nota dell'Italiana in Algeri o della Sinfonia Praga o del Lerchenquartett) scambiano il
valore axiologico del concetto di musica alta con le bellurie edonistiche,
baloccanti, consolatorie della “musicalità”. No: un verso deve essere musica assoluta;
deve, cioè, superare e interdire la volgare camicia di Nesso della parola
comunicativa, di natura volgarmente finalistica (quella, insomma, che serve
alla visione economicistica dell’ottenere, del comprare, dell’avere…) per
giungere a un’altra lingua, sempre - come ho già detto prima - non altrimenti comunicabile né "trasferibile" né parafrasabile (Arimane, salvaci dalle
parafrasi!): una
lingua che ci permetta, infine, di toccare la gioia irriferibile dell’intermissione,
dove tutto è irriconoscibile, e allo stesso tempo riconoscibile di nuovo, dall'inizio.”
Esiste ancora uno specifico femminile nella poesia moderna?
“Ma non è mai
esistito uno specifico femminile! Se la scrittura fa intendere un’identità di
genere, o addirittura la piccola psicologia di colui che vuole illudersi di essere l’autore di ciò che ha pensato e riportato in versi,
vuol dire che ci troviamo di fronte alla lingua prosastica del quotidiano e dell'ovvio (cioè di fronte alla debole lingua dell' avere e non a quella forte dell'essere...). E poi: anche l’identità, in poesia, dev’essere intesa come una metafora. Le grandi voci poetiche femminili, da Amelia Rosselli a
Claudia Ruggeri, lo avevano ben capito: non per nulla erano ben più che scrittrici, ma supreme musiciste; e per questo motivo hanno,
infine, annullato (col verso e col gesto volontario della rinuncia alla vita)
la loro “biografia”, la loro storia privata.”
Se avesse la possibilità di scegliere un poeta famoso del passato come
compagno di viaggio, chi indicherebbe?
“Non sceglierei i poeti, ma le loro creature, oppure i loro fantasmi amorosi: ad esempio, Marianne Jung o Antonietta Fagnani
Arese o Apollonie Sabatier o Euridice o Galatea. E qui mi fermo, perché l’elenco
sarebbe lungo...”
E cosa farebbe alla
fine del viaggio?
"Come Bute, l'argonauta meravigliosamente cantato da Pascal Quignard, tornerei volentieri indietro, sino all'acqua indistinta dell'origine e della non separazione..."
Nell’immagine,
Mario Fresa in un ritratto (2018) di Antonia Bufi.