Intrisi i miei anelli
m’immersi nel bosco
e andai dove, non so.
Così il
Poeta spense la luce e iniziò il suo viaggio. Non tardò a vedere un oscuro
chiarore che lo mise in guardia. Perché doveva non aver paura? si domandò
aprendo gli occhi. Era sicuro di mettere il piede tra il primo e il terzo
albero, ma: dove mettere l’altro piede? L’incertezza generò una piccola
esitazione che gli fu fatale. Perse l’equilibrio e cadde. Il prato era morbido
e le mille foglie scricchiolarono lamentandosi come teneri gusci di lumache
schiacciate. Avrebbe voluto riaccendere il lume, ma qualcosa gli consigliò di
non farlo. Saggiamente, senza far tante storie, si sollevò lentamente ed una
volta in piedi batté le mani sul petto, due colpi di tacco e decise che sarebbe
stato meglio andare a vedere quel che c’era dopo il bosco. Prese coraggio e dal
taschino dell’orologio estrasse i versi:
Intrisi i miei anelli
m’immersi nel bosco
e andai dove, non so.
Gli parve,
allora, di leggervi una direzione e una meta: la via intrapresa era quella
giusta e la cima davanti a lui.
Possono
dei versi indicare un destino? Se scriverli non è tutto, lasciare che cantino è
la chiave di tutti i segreti al di là del possibile mondo reale. Il metafisico
strizzerà l’occhio destro, aprirà le labbra disegnando un mezzo sorriso,
scuoterà la testa dall’alto verso il basso in segno di approvazione. L’autore
si darà una bella sistemata, caso mai occorresse esser particolarmente in
ordine, presentabile. Camicia a posto, capelli pettinati, scarpe lucide. In
tasca un fazzoletto azzurro a pallini bianchi profumato di lavanda e rosmarino.
Poi, in un angolino qualche altra bella parolina di circostanza:
L’anello recherà un bacio
la mano un petalo
la bocca un dolce, sì.
Mai farsi
cogliere impreparati, senza un solo ducato d’oro nascosto dentro la tasca
interna, quella che ospita un quadrifoglio, l’ala di una farfalla e l’ultima
lettera dell’amata.
Il Poeta è
povero, non ha di che pagare la minestra, il tozzo di pane, il mezzo bicchiere
di vino, la scaglia di formaggio. Vorrebbe, ma non può, lasciare qualche verso,
ma l’oste ha denti buoni e sani e vuole stringere almeno una moneta d’argento.
La servetta s’avvicina, sussurra paroline di miele e zucchero filato e l’oste
paonazzo s’allontana borbottando. Vorrebbe mostrargli i seni sodi e sudati, ma
i versi son già sfornati:
Cogli il suono, prima
che il giorno, ti porti
dove non vuoi, morire.
Ella lo
baciò sulla fronte e gli offrì una porzione di prosciutto ben cotto. I vicini
risero compiaciuti. Il cameriere batté le mani e la danza ebbe inizio. Quando
si alzò aveva tra le labbra una margherita. Uscendo nessuno lo vide. La notte
lo ingoiò. Il resto lo fecero i gatti ed una maledetta nebbia.
Ah, se
dovesse bastare una mela per non sentire il morso della fame che sale e bussa,
basterebbe semplicemente rubarla. A tiro c’è proprio un ragazzino che fa al
caso suo.
Mi darai un diamante
o la sfera del presente
o scarpe per andar lontano?,
domandò il
ladruncolo tenendo tra le dita un mozzicone di sigaretta. Il Poeta non ebbe il
coraggio di respingerlo.
Ti darò il sole che non hai
la primavera ovunque andrai
tutto il pane bianco che vorrai.
Corse,
allora, e fulmineo come sempre afferrò la mela più rossa e corse ancor di più,
come non mai. Lui gli diede una piccola scatola, dentro poteri magici da far
impazzire di gioia, per poi andare a nascondersi sotto il portico del buon
pomeriggio. D’intorno, nessuno. Sedette sul primo gradino di un ingresso.
Esaminò attentamente la mela. La lucidò come si fa con l’argento buono di
famiglia. Dopo aver dato un’occhiata a destra e una a sinistra, la addentò con
ugolina avidità. La sentì dolce, ma poi presto l’amaro prevalse. Seguì una
fitta dolorosa. La mela cadde e rotolò via, lontano, mentre lui si piegò e si
gettò, corpo e anima, in un sonno profondo ed eterno.
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