mercoledì 14 febbraio 2018

“(…) baciavo quel pane / prima di affondarvi il coltello”

Gabriella Bianchi: Notturno e altre poesie –FaraEditore 2017 

recensione di Vincenzo D'Alessio


“Amore, salute lucente, / Mi pesano gli anni venturi.” – sono i versi dell’Inno alla morte di Giuseppe UNGARETTI del quale ricorre quest’anno il centotrentesimo anniversario della nascita.
La raccolta pubblicata da Gabriella Bianchi, presso FaraEditore nel dicembre dello scorso anno ché selezionata dalla Giuria del Concorso Faraexcelsior 2017, reca il titolo: Notturno e altre poesie percorre, “quasi un canzoniere” (Germana Duca, giurata) la stessa immortale strada della poesia: “(…) Per sempre scriverò di te / e lascerò volare nella notte / i miei versi dolenti / come falene al buio.” (pag. 29).
Tema questo della falena che riprende la “larva argentea” presentata da Trimalcione (nel Satyricon di Petronio), ai commensali, raffigurata nell’Officina Coriariorum di Pompei, ricordando l’instabilità e la brevità dell’esistenza.
La poeta, in questa intensa raccolta d’amore, ravviva la fiamma che brilla davanti alle spoglie dell’amato, inseguendo l’immortalità dell’energia, richiamando la forma umana consapevolmente dalla valle delle ombre dove l’inesorabile lama della Morte l’ha costretta.
Possiamo paragonare Gabriella Bianchi ad una giovane vestale votata ad alimentare il fuoco nel tempio dell’Amore nella lunga notte dell’esistenza per evitare che le ombre maligne venute dall’oltretomba portino via la figura dell’amato.
L’immagine proposta al lettore è densa di luoghi, di ricordi, di amore: Perugia, il Tevere, Puntastella, l’Adriatico, e il profondo rivivere quotidiano nel pane: “(…) baciavo quel pane / prima di affondarvi il coltello” (pag. 27) quasi a ripetere lo spezzare del pane sull’altare durante la santa Messa, oppure la similitudine dei sentimenti più belli legati alla figura della madre: “(…) Mio latte, mia dolcezza” (pag. 32); “Sei la sostanza delle mie parole / la carne dei miei pensieri / (…) Perché eri vino, acqua, sangue, linfa, / riso e luce” (pag. 28).
Voce potente e inconsolabile, come quella dell’Ungaretti di fronte alla perdite degli affetti, rende appieno il dolore dell’esistere nei giorni dell’assenza quando scrive nei versi: “(…) Anche l’anima è carne / e patisce le ferite per sempre” (pag. 33).
L’invulnerabilità dell’Amore di fronte all’eternità della scomparsa del vivente; la tenacia negli occhi dell’autrice per raccogliere l’alternarsi delle stagioni componendo ghirlande fiorite di versi portate all’amato come un bambino/ un figlio: “(…) Che ci sto a fare qui / io che non so fare niente, / io che credo nell’invisibile / come i bambini?” (pag. 23).
Quell’invisibile credo resta l’antagonista alla fine del dialogo.
Vivere per cantare l’inquietudine che trapassa, nel superstite, la notte e il giorno, il calore dal freddo, l’amore dalla perdita: “(…) E mentre la sera colmava di vino denso / le sue coppe, / ho sognato di renderti la vita con un bacio” (pag. 11).
I versi sono legati dalla forza dell’enjambement. Molte sono le similitudini. La disposizione dei versi si affianca alle raccolte precedenti racchiuse in questo lavoro: I fantasmi dell’addio (già edita nel 2013 con il titolo Il sogno breve, ampliata e riveduta) – Lunamadre (2014) e Correnti atlantiche (2015).
Caro lettore avvicinati ai versi delle raccolte contenute in questo volume con la capacità di “mimesis” schietta, confrontandoti con Madre Natura: ingannevole, soffermandoti con lo sguardo sulla “vastità dei sentimenti declinati” (G. Duca, pag. 7).

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