mercoledì 24 ottobre 2012

Su La neve di Francesco Filia


Fara Editore, 2012

recensione di Vincenzo D'Alessio

kairosFrancesco Filia è un poeta meridionale, nato a Napoli dove attualmente vive. Ha pubblicato, come vincitore del concorso poetico bandito dalla casa editrice Fara di Rimini, la seconda raccoltadi poesie che reca come titolo: La neve. La raccolta si compone di ventinove frammenti e un frammento finale, tutti datati come un diario. Infine compaiono le note esplicative dei luoghi e degli eventi storici contenuti nei frammenti.

La prima raccolta del Nostro recava come titolo: Il margine di una città (2008) e, gran parte dei temi trattati in questa prima raccolta, sono ripresi in questa. La radice che affonda nella memoria personale,  e in quella collettiva, è la città di Napoli.

I frammenti di Filia possono somigliare, a mio avviso, agli anelli concentrici che formano la parte interna di un albero mentre si accresce e, alla sua morte, mostra a chi guarda l’età, le stagioni vissute, i dolori che lo hanno accompagnato mentre si levava dalla terra verso il cielo, in mezzo a tanti suoi simili. Nel nostro caso l’albero è il poeta, la terra la sua città, la memoria le sue radici. Gran parte del racconto poetico è pervaso dalla necessità di svuotare il dolore del vivere in una città che non è quella desiderata, sognata, vera.

La quotidianità uccide in continuazione i sogni del poeta e degli uomini come lui. Assedia i pensieri rendendoli incubi. Rivela un ventre oscuro che risucchia le energie positive della luce in superficie. Ecco che compaiono costantemente nei versi le parole “sangue” e “ i morti”: “ abbiamo nutrito di sangue i morti” (pagg. 20 e 22). Una collera nascosta nel profondo per la serenità negata, per l’impossibilità di godere della pur semplice felicità di un sorriso. Mura, palazzi, case, monumenti e reperti assediano lo sguardo e solo “sulle colline” avviene il miracolo dell’avvicinamento al cielo.

Ho voluto premettere questi temi, cari al poeta e presenti anche nella prima raccolta, per avvicinarmi al tema della “neve” che dà il titolo a questa seconda raccolta: una neve vera o la neve dei sogni? I versi del primo frammento lo rivelano: “La neve, quella vera, non l’abbiamo mai vista / se non nella bocca a nord del vulcano” (pag. 15). Quello che il poeta ci induce a capire, tramite questo evento naturale, è il tema della sua profonda filosofia di vita. La meraviglia, il meravigliarsi di fronte agli avvenimenti, il saper ritrovare la spontaneità in noi, per generare di nuovo la paura per ciò che accade, di fronte alla staticità alla quale ci hanno abituati i mezzi di comunicazione di massa, le città affollate di brusii, di clacson, di urla di sirene impazzite.

Manca l’anima ancestrale che apre la strada alla filosofia dell’esistere, direbbe Aristotele, lo stupore di fronte alla semplicità delle cose, il restare in ascolto della neve che cade, si scioglie, e crea nuova vita. Un lievito che l’uomo di oggi ha perso e Filia lo descrive in modo forte nei versi che seguono: “Ognuno è appeso a quest’eterno presente d’asfalto / e serrande abbassate all’ultimo sussulto del giorno / e al negativo impresso in questo cielo di false promesse” (pag. 17).

L’anafora ricalca perfettamente l’invito, in terza persona, in ogni frammento a prendere coscienza degli avvenimenti: “Raccoglieremo; Non saremo noi; Abbiamo visto; Abbiamo sentito; / Avanziamo”. L’enjambment propone un racconto che si muove sulla lama del verso-prosa per svolgere lo sgomento dei morti: “I morti ci entrano / dentro! (…) Rinascono in noi, ci reclamano, con un conto / da saldare, / una consegna da rispettare” (pag. 32). Il poeta è il viaggiatore accecato dalla città “dal ventre cavo di questa terra spergiura” (pag. 33) che porta il lettore verso la vera identità dei luoghi vissuti: “Bisogna andare in collina o fuori città, sui moli abbandonati / o in alto sui crateri, nell’odore dei gelsomini, oltre muretti / e terrapieni pilastri e cantieri abusivi” (pag. 29) per raggiungere la purezza della neve che cade ancora una volta a meravigliare il bambino-filosofo e a rivelare la purezza dei luoghi.

Uno dei passaggi più belli, proprio perché doloroso e infantile, è il frammento decimo dedicato al sisma del 23 novembre 1980: segnale di morte che la nostra terra ha dato per rinnovare il patto sovrano della sua identità di creatura vivente accanto a noi creature inconsapevoli della caducità del nostro tempo. Francesco Filia realizza in questo frammento una poesia lieve, come la neve, capace di interagire con il lettore infondendo in lui la consapevole partecipazione all’evento drammatico mediante il richiamo dalla memoria della fanciullezza: tempo sospeso di fronte al fragore dell’evento naturale: “Non avevamo capito che il terremoto era appena / iniziato, che avremmo dovuto aggirarci in un fragore / di tubi Innocenti e siringhe di cemento armato / di lavori in corso e doppi turni. Checco ‘o cecof / mi chiamavano alle elementari, per gli occhiali,  / alcuni scherzavano altri picchiavano, io / mi difendevo a denti e graffi a calci nelle palle” (pag. 25).

Bene ha raccolto, l’essenza dell’insieme, la poeta Anna Ruotolo componente della giuria del concorso che di questi versi ha scritto nella sua critica quanto segue: «appare chiarissimo che l’evento atmosferico non è mai una semplice registrazione di grazia: attraverso trenta “frammenti” l’autore ricrea una genesi profonda e insieme genealogia (nel senso dei suoi legami ancestrali non solo con le sue origini pure ma anche con rovescio della (loro) medaglia: cerchi sciolti, fanghi e scale di grigi…) della neve in una terra che non la trattiene e che piuttosto si sveglia nel gelo di fanghi e pozzanghere, una realtà che brucia sin dal primo movimento reale appena dopo lo stupore” (pag. 8).

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