lunedì 12 marzo 2012

Su Colibrì di Anna Maria Tamburini

Riflessioni di lettura di Bruno Bartoletti

Anna Maria Tamburini, critica letteraria fine e profonda, a cui si deve molto, soprattutto per le sue ricerche su Agostino Venanzio Reali, Margherita Guidacci, Cristina Campo, ha dato alle stampe una bella silloge, Colibrì, edito da Fara Editore nel 2010.

La sua sensibilità, più volte riconosciuta nell’avvicinarsi ai testi – analisi di testi che vuol dire riscrivere e riconoscersi – questa volta trova spazio e campo di applicazione in una produzione poetica di rara intensità.

Ciò che colpisce ad una prima lettura è il lavoro sulle parole. Già il titolo, “Colibrì”, ben si addice alla materia trattata e alla forma. Colibrì è infatti l’uccello più piccolo, ma anche il più veloce, e come tale rapido, tagliente, con battito di ali che a stento si riesce a cogliere, sguardo o battito di ciglia, squarcio di luce, come ben evidenzia Loretta Iannascoli nella postfazione. Ma non solo forma, come in un primo momento sembra suggerire la lettura: la parola nasconde sempre un pensiero, una parola essenziale, attenta, non superflua. Così i lati descrittivi nascondono sempre il fondo di un pensiero che va oltre, che si esprime nella ricerca di una luce, di un altrove che dia il senso al percorso. La silloge si apre con una lirica tutta personale di mare e di luce – la scelta del mattino non è casuale – è l’inizio del giorno, l’inizio di un cammino che porta in profondità, sul fondale, in senso metaforico dentro l’animo, dove si specchia la luna in religioso silenzio, appena una lamina, uno spicchio, con astri che diventano ombre minuscole e tremule di fronte al mistero dell’uomo.

Certamente Anna Maria Tamburini avverte il mistero della vita, l’ansia che ne raccoglie, e si prepara a tessere un mosaico di frammenti/immagini che si integrano, ciascuna non casuale, ma in un ordine studiato, meticoloso. Si avverte, dietro ogni parola, una preparazione e un patrimonio culturale di notevole intensità, uno studio sempre preciso di autori e di testi, una formazione che si riversa nei tratti, nelle parole. Le poesie sembrano snodarsi una dietro l’altra in apparente linearità, e invece il mosaico cresce di intensità, si eleva e cerca di dare una risposta al senso della vita e del Cosmo. La presenza degli astri, della luna e delle stelle, del firmamento, e poi delle piccole cose, in temi ricorrenti che risentono di temi tanto cari ad Agostino Venanzio Reali, sono le metafore sempre presenti di questa domanda. E la poesia vera deve soprattutto fare domande.

Così la metafora del mare (la presenza del mare è una presenza ricorrente e salutare) che il bambino cerca di mettere nella buca segna, in questo ricordo agostiniano, il rapporto impossibile, ma anche salvifico, dell’uomo con l’immensità e con il suo Dio:



col secchiello

nella piccola buca \

il mare versare

che specchia il cielo



occhi sgrana il bimbo d’azzurro




Nulla si può e si deve aggiungere, ogni parola si fa testimonianza di un mondo molto più profondo, segreto e per questo tutto da esplorare, ma si sa che al fondo c’è l’uomo, la sua vita e la sua storia. In una delle ultime liriche Anna Maria Tamburini lo dice chiaramente, senza mezzi termini, richiamando i tre elementi su cui si fonda la materia (terra, acqua e aria) – manca il fuoco, ma il fuoco è la luce, è la punta dell’anima che chiede salvezza:



Al centro l’uomo – al margine? –

re sacerdote figlio e servo

d’argilla d’acqua e di aria si anima



ma la punta,


la punta dell’anima

ama e altro chiede



è più su e si eleva

più sopra il sensibile moto

e le alterne vicende



la punta dell’anima è lieve


e chiede, e ogni corrispondenza,

vita ed eterno: Vale!



La lirica che precede sembra prepararla e a questa legarsi. Il fuoco è la vita (“un piccolo cero la vita che arde”) – e l’ossimoro ne evidenzia e ne sottolinea la luce, se le tempeste e le notti sono buie. Allora tutto si può perdere se si riesce a comprendere, “lontano dalle scie dell’uomo / dal frastuono di inutili transiti / i moti necessari alla vita” per arrivare all’equilibrio, all’energia gravitazionale, all’armonia che “alla musica del cosmo si adagia”.

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