mercoledì 30 marzo 2011

Intervista a Ugo Piscopo

Me ne andai in Africa a cercare antiche radici e altre ragioni.

di Antonietta Gnerre

Ugo Piscopo (Pratola Serra, 1934) poeta, scrittore, studioso di letterature comparate e di arte contemporanea. Benemerito della scuola, della cultura e dell’arte, è stato professore e preside nei licei (1958-1983) e ispettore del Ministero della Pubblica Istruzione (1983-2000). Dal 1963 al 1967, ha insegnato al Liceo Italiano di Tripoli, per conto del Ministero degli Affari Esteri e ha tenuto corsi di lingua e cultura italiane per stranieri. Nel 1983, ha vinto il concorso per ricercatore di Letteratura italiana presso l’Università degli Studi di Salerno. Ha svolto e svolge un’intensa attività letteraria ed è autore anche di testi teatrali. Come poeta, ha pubblicato le raccolte: Catalepta (1963), e (1968), Jetteratura (1984, Primo Premio Gallicanum 1984), Quaderno a Ulpia la ragazza in mantello di cane (2002, Primo Premio Minturnae 2004), Haiku del loglio e d’altra selvatica verzura (2003, Menzione speciale al Premio Sandro Penna 2004), Il ricordo del tempo di un bimbo che misura (con Gianni Rossi, 2006), Presenze preesistenti. Pietre di Serra di Pratola Serra (2007, secondo Premio Penisola Sorrentina 2007), Lingua di sole. 12 haiku + 1 e una breve epistola (2008).


Lei è scrittore, critico, saggista, storico, drammaturgo, poeta, traduttore e giornalista. Tutte queste declinazioni culturali camminano insieme?

Possono, devono camminare insieme. È come nella vita di ognuno di noi. Noi viviamo, e, in quanto viviamo, non ci limitiamo a fare i viventi: pensiamo, giochiamo, lottiamo, ci rattristiamo, ci specializziamo in un mestiere, ci sposiamo, badiamo ai figli, ci esponiamo a rischi, partecipiamo alle attività ludiche, ai riti religiosi, alla politica. Proprio perché viviamo, facciamo per necessità o per scelta più cose. Anche chi si specializza, fa molte cose. Prendiamo un falegname o un commerciante. Ognuno di essi fa il mestiere come può. Ma oltre a fare l’attività specifica, fa tante altre cose che hanno rapporto con la sua vita: si sposa, fa i figli, si appassiona magari alla politica o se ne disincanta, prende una vacanza, se può va in villeggiatura. Analogamente avviene nel campo della letteratura, che è la mamma della poesia, della narrativa, della saggistica e di tutto il resto. Chi è poeta, deve conoscere i segreti della letteratura e deve sapere giocare con le sue possibilità.

In quale veste artistica, fra quelle elencate, si sente più sicuro?

Con la storia della veste, mi fai pensare a una bellissima commedia di Bontempelli, Nostra Dea. Qui la protagonista dispone di un vasto e ricco atelier, con tantissime vesti. Lei, a seconda del vestito che indossa, diventa un’altra. Temo, cara Antonietta, che tu mi abbia fatto scoprire un aspetto della mia vita, a cui finora non avevo mai pensato. Se devo risponderti, dovrei ammettere che mi va bene più di una veste.

In quest'intervista parleremo della sua passione per la poesia. Pertanto, parto subito con la prima domanda: come nasce la poesia nella vita di un uomo?

Bella domanda, questa. Da un milione di euro. Come nasce la poesia? Dove nasce, quando nasce? Sono domande che concernono le origini del mondo e insieme l’ontologia. E tu sai che cosa è l’ontologia. Io non sono in grado di rispondere. Più giusto sarebbe parlare di che cosa è, come funziona la poesia, che razza di congegno è. Più comodo, poi, sarebbe per me parlare di me, delle mie personali esperienze. Ma, con questo, siamo nel campo della biografia. Se dovessi, però, fare il mio biografo, diventerei un po’ l’inventore di un racconto. E da poeta, farei il narratore. Dice uno scrittore francese: “Ma biographie?... Inventez-là”.

Lei esordisce negli anni Sessanta con Catalepta, una raccolta che parte dalla sua terra d’origine (Pratola Serra, Avellino) con un’impostazione “fortemente elegiaco-intimista”; uno stile che richiama, come sottolinea il critico letterario Paolo Saggese in Poeti del Sud 2 (Sellino Editore, 2006), quello di Ungaretti e Quasimodo. Com’è nato questo quaderno?

È nato dalla strage di molti “pizzini” e di molte prove, cominciate quando frequentavo la quinta elementare, nella germinante solitudine agreste di Serra. Poi intervenne un lungo periodo di mie difficoltà con la scrittura. La fontana magica si riaprì in prima liceale. Ma di tutto questo non è rimasto nulla, credo. Dal primo anno di università in poi ho cominciato a raccogliere e a selezionare i testi. Che auscultavano altri testi e altre maniere: di poeti italiani, di poeti francesi e inglesi, di poeti latini e greci. Cercavo l’essenzialità della parola su uno scenario intemporale, metafisico. E presi a nuotare nelle acque di un gran fiume, dove confluivano tanti linguaggi, tante voci. Quella raccoltina, pubblicata nel 1963, piacque a Diego Valeri, che mi scrisse un lungo e affettuosissimo testo. A Toffanin, che mi fece spaventare con certi giudizi favorevoli troppo altisonanti. All’amico poeta spagnolo Felix Murga, che se ne innamorò e fece avere un copia del quadernino a Jorge Guillén, che io ammiravo allo spasimo.

Nel 1968 consegna alla stampa la sua seconda prova poetica “e”. Cinque poesie di questa raccolta sono state tradotte in francese da A. Monjo , pubblicate in «Europe», Paris 1970. La raccolta in gran parte è redatta durante il suo soggiorno a Tripoli come insegnante. Ci può parlare di questo periodo della sua vita, e di questo lavoro che sottolinea la condizione di vita in Africa e nel Sud d’Italia?

Questa raccolta marca una svolta nel linguaggio, nello stile, nei modelli culturali, nella relazione col reale. Pertanto, andrebbe letta in questa polisemia, a cominciare dal linguaggio e dallo stile. Segnala spostamenti di asse. È significativo quel titolo brevissimo, appena pronunziato: “e”, in minuscolo, accenna alla congiunzione che collega più cose fra loro (proposizioni, monemi, lacerti, sintagmi). A ogni modo indica lo stato di continuazione del discorso e delle vicende. È simpatico che un titolo del tutto identico venga adoperato subito dopo a Parigi per una sua raccolta da un poeta mio coetaneo, che stava in fase di lancio e più tardi si affermerà, Jacques Roubaud. Ed è significativo anche che “e” sia pubblicato nel 1968, anno della grande contestazione operaia e studentesca a livello internazionale. Contestazione che si avvertiva nell’aria già da qualche anno. Erano, quelli, anni fermentanti in senso rivoluzionario. La mia contestazione maturava già da tempo, in insoddisfazione e impazienza nei confronti della civiltà occidentale, degli studi classici, delle situazioni sociali. In quel tempo passai dai miei studi sulla classicità a quelli contemporaneistici. Me ne andai in Africa a cercare antiche radici e altre ragioni. Mi qualificai politicamente a sinistra. Da fidanzato passai al matrimonio. Dismisi la poesia intemporale per quella grondante magmaticamente e collassante implosività. Come Freud per Traumdeutung, avrei potuto epigrafare il mio quaderno con le parole dell’Eneide di Virgilio: “Flectere si nequeo Superos Acheronta movebo”. Quanto ai rapporti con l’Africa, ho dedicato ad essi un ciclo narrativo inedito di quattro volumi. Due li pubblicherò a breve, due li ho destinati al silenzio (per sempre).

Nel 1984 a distanza di lunghi anni dalla raccolta “e” , lei ritorna di nuovo sulla poesia. La raccolta s’intitola Jetteratura e segna un altro importante traguardo in campo letterario.

Permettimi che ti corregga, cara Antonietta: nel 1984 pubblico una nuova silloge di versi, non ritorno di nuovo alla poesia. Nella poesia, ormai, tengo le mie radici da sempre, dando segni all’esterno, questo sì, per intervalli (quasi “per intervalla insaniae”, come diceva San Girolamo di Lucrezio). In questo nuovo quaderno, la ricerca avviata continua più serrata (e anche più astrattizzante nel senso indicato da Gerardo Diego e da altri poeti spagnoli del primo Novecento). Approfondisco e allargo il lavoro di destrutturazioni e di smagliature, con l’intenzione di contattare (o almeno suggerire) uno stile e un linguaggio che cominciano a rivelarsi per accenni e per discontinuità, per rinvii ad un dicibile del non detto, per attingimenti a offerte latenti tutte ancora da esplorare. È un distruggere, per ricreare stati e situazioni nascenti.

La poesia maturerà ancora, con stimoli e nuovi flash intuitivi. Infatti, in Metropolitana blindata, si respira un dirompente sperimentalismo e l’impegno meridionalista. È vero?

In quanto al nesso col Sud, non c’è stata mai oscillazione. Io sono nel Sud, sono il Sud. Sempre. E questo è evidentissimo nella mia produzione creativa (in versi e in prosa). A cominciare da Catalepta e ancor da prima. Anche quando parlo dell’Africa, mi riferisco sempre al Sud, ovviamente a un Sud su altra scala (geopolitica, culturale, ideale). E parlo del Sud, soprattutto se ne taccio, quando l’assumo a scenario oscuro del non detto o a fondale di acque che si screziano in superficie di scintille di cielo. Come accade, quando parlo della Germania o dell’Europa settentrionale o del Nord America. In quanto allo sperimentalismo, l’avvio (in do maggiore) è in “e”. Dopo il mio passaggio al modernismo, i miei contatti con Luciano Anceschi e la conoscenza di Edoardo Sanguineti. Il quale, alla sua scomparsa (2010) ha lasciato incompiuto un lavoro, che aveva avviato per una mia collana, “Ritratti di città”, che io dirigo da anni per l’editore Guida di Napoli. In questa collana, Edoardo aveva già pubblicato un profilo della sua Genova.

Una nuova stagione si apre con l’epyllion del Quaderno a Ulpia, la ragazza in mantello di cane, dove lei riflette sulla condizione esistenziale dell’uomo. Con un gusto sperimentale molto vicino alla corrente dei Novissimi.

Le consonanze con i Novissimi e dintorni vanno cercate legittimamente, ma fino a un certo punto, nella mia produzione della seconda metà degli anni Sessanta e nei due decenni successivi. Hai pienamente ragione, invece, quando parli di una “nuova stagione”. Quest’altra stagione si avvia agli inizi degli anni Novanta e continua tuttora. In essa, perseguo l’obiettivo di una “nuova narratologia”, come dico spesso tra amici. Chiedo allo stile e al linguaggio l’opportunità di consentire un respiro più continuo e leggero alla mia scrittura. Simultaneamente spingo la parola ad avviarsi verso nuovi orizzonti, per un dialogo con aspetti e situazioni non più condizionati dall’antropocentrismo.

Questa prospettiva d’approccio alla parola sfocerà del tutto nella raccolta Haiku del loglio. Le piante, le erbe e i fiori si animano, prendono corpo, vivono oltre la carta.

In Haiku del loglio, continuo e confermo l’indirizzo intrapreso in Quaderno a Ulpia. Dopo la nuova raccolta ci sono altri quaderni, qualche libro d’arte, un’antologia pubblicata a Varsavia da miei amici che ho conosciuto lì per alcuni miei interventi all’Istituto Italiano di Cultura. L’antologia Andate e ritorni, con testi in italiano e traduzione in polacco a fronte a cura di Pawel Krupka, dà parecchio spazio a testi inediti, che vengono dopo Haiku del loglio. Comunque, una tappa fondamentale dopo Haiku del loglio è Presenze preesistenti. Pietre di Serra di Pratola Serra, con una bella prefazione di Marcello Carlino.

Quali poeti hanno influenzato, in modo specifico, la sua scrittura?

Sofocle e i lirici greci, Lucrezio, Orazio e Virgilio tra i latini, Paul Éluard tra i francesi, Jorge Guillén e Lorca tra gli spagnoli, John Donne e Dylan Thomas tra gli inglesi, i Beats (Ginsberg, Ferlinghetti, ecc.) tra gli americani, Goethe e Rilke tra i tedeschi. E poi tutti gli italiani, da Cavalcanti e Dante in qua, fino a Zanzotto e oltre.


Tre libri, di poesia, da tenere sempre sul comodino.

L’Odissea (ma in greco), la Divina Commedia e tutto il teatro di Shakespeare (ma in inglese).

Quanto tempo lei dedica alla poesia?

E come faccio a contabilizzarlo? Alla poesia dedico non solo il tempo di lavorazione a tavolino, ma sequenze di notti insonni e talora anche quelle in cui dormo e sogno di comporre versi, che per lo più al risveglio non ricordo più. Chissà che forse quelli che non ricordo non siano i migliori.

Come concilia l’attività di poeta con la sua intensa attività di critico letterario? 

La conciliazione avviene sul filo di uno scambio: la poesia è terribilmente, anche se talora inconsapevolmente, critica, e la critica a sua volta ha senso se è intrigantemente inventiva e disoccultatrice di aspetti segreti.

A quale sua pubblicazione è più legato?

Senz’altro sono legatissimo alla Casa di Santo Sasso, che vorrei ristampare, se possibile. Ma sono legato a molti altri testi: a Catalepta, che è la mia opera prima, ai miei studi sul surrealismo e sul futurismo, a Savinio, a Torneador che è un romanzo per ragazzi, alla traduzione del Grande viaggio nel paese degli Uroni, che è la prima versione italiana di un incantevole testo di un viaggiatore francese del Seicento sui Grandi Laghi del Nord America.

Un’ultima domanda, a cosa sta lavorando in questo periodo?

È uscito da circa un mese con Guida un libro da me curato e prefato di Franco Casavola, Presidente emerito della Corte Costituzionale, e ne sto seguendo la diffusione. Sono in stampa una raccolta di poesia inedita e un testo teatrale inedito dedicato all’Italia del nostro tempo. Attendo nello stesso tempo la pubblicazione a Roma di una raccolta di testi teatrali precedenti. Mi accingo a stampare due libri di narrativa dedicati all’Africa. Tre miei poemetti stanno per uscire, uno per parte, su una rivista di filosofia e su due antologie collettanee. Seguo delle riprese filmiche per un corto sulla mia attività di poeta. Curo le collane letterarie da me dirette. Do collaborazioni a giornali e a riviste. Prendo parte a eventi e a dibattiti culturali. Forse, tu mi dirai che è tanto, che è troppo. Non ti potrei che dare ragione.

3 commenti:

Unknown ha detto...

Nel salutare Antonietta, gentile e forte poeta che ho conosciuto ieri sera (da Treves), le affido la seguente:

Ugo

Il nostro benemerito è un cantore
che va dall’estensione all’esplosione.
Si fa implosivo le volte che l'aria
intorno è tutta un risucchio incandescente,
divorata da un dio che la richiama
con tale forza, che tutta è consumata.
Poeta urente, nonché maratoneta,
procede svelto, come fosse niente,
su tappetini di carboni accesi.
Che sono poi - è chiaro ed evidente -
cascami di lessemi consumati
dal PiscopoFenice, cinerino
pennuto, tra i più rari,
che sa di carbonelle e di rimari.

Eugenio Lucrezi

Unknown ha detto...

Nel salutare Antonietta, gentile e forte poeta che ho conosciuto ieri sera (da Treves), le affido la seguente:

Ugo

Il nostro benemerito è un cantore
che va dall’estensione all’esplosione.
Si fa implosivo le volte che l'aria
intorno è tutta un risucchio incandescente,
divorata da un dio che la richiama
con tale forza, che tutta è consumata.
Poeta urente, nonché maratoneta,
procede svelto, come fosse niente,
su tappetini di carboni accesi.
Che sono poi - è chiaro ed evidente -
cascami di lessemi consumati
dal PiscopoFenice, cinerino
pennuto, tra i più rari,
che sa di carbonelle e di rimari.

Eugenio Lucrezi

Enzo Rega ha detto...

Anche se in ritardo mi associo alle parole - le sue in versi - di Eugenio dedicate all'amico Ugo, con un saluto ad Antonietta
Enzo Rega