martedì 29 giugno 2010

Su Le rondini di Manet di Anna Elisa De Gregorio



Edizioni Polistampa, Firenze, 2010
recensione di Caterina Camporesi

E le rondini turbinavan come spole
canore pel telaio grande dell'azzurro
(Corrado Govoni)

Capita qualche volta di incontrare libri che sorprendono e arricchiscono poiché contengono fra le pieghe dei loro testi cultura raffinata, eleganza composta ed anche uno stile che è felice connubio di contenuto e forma.
Il titolo, Le rondini di Manet, che rimanda al famoso olio su tela del 1873 del pittore francese, porta con sé una ventata di leggerezza e grazia, di giovinezza e maturità e le due rondini che, come segni di croce (…) sembrano svegliare il silenzio del mondo immerso in un’atmosfera rarefatta, sono segno di unione tra cielo e terra.
La raccolta è suddivisa in tre sezioni e, come scrive l'Autrice nella Nota finale, ognuna fa riferimento ad un specifico elemento che in ordine è l'aria per i ventagli, l'acqua per l'imperfezione e la terra per la piccolezza. Ogni sezione termina poi con una serie di haiku, ulteriore testimonianza della sempre attiva predilezione che la De Gregorio ha per le piccole cose.
Il testo di apertura conferma subito la capacità di trasfigurazione che la poesia possiede, riuscendo a trasformare scene di ordinaria quotidianità in momenti di incantevole straordinarietà: un moto inatteso scuote e sovverte l'ordine di una cucina immersa nel silenzio e in un battere d'occhio una severa padrona di casa da cenerentola si trasforma in regina: tre onde di capelli bianchi diventano un piccolo ventaglio che subito è diadema, mentre gli oggetti quotidiani usuali si umanizzano e stupefatti s'incantano ad ammirare la danza di due pantofole di panno.
Come già detto, sono soprattutto i dettagli nella poesia della De Gregorio ad alimentare il processo della metamorfosi e così di testo in testo essi spesso conquistano la pregnante e suggestiva forma del ventaglio, coacervo di infinita polisemia.
Il ventaglio occhieggia in ogni dove, ed esso, come afferma l’Autrice nella Nota alla fine del libro, “ha corpo di vento, scheletro di stabilità. Gioco di prestigio: è una matita, con un giro di mani diventa conchiglie, rose, colombe. Ridotto cono di luce su un mondo dipinto che si richiude nell'ombra.”
Nella inesauribile capacità di rinascere ogni volta da minute tracce, sempre diverse agli occhi di chi sa vedere, esso può suggerire di volta in volta oggetti le cui forme e i cui significati sorprendono sempre per originalità.
Fra gli haiku che chiudono la terza sezione ce n'è uno, Povera strada / sull'asfalto cucite / toppe più scure, la cui potenza simbolica ha portato la mia mente in Bolivia, nelle strade della sua capitale, La Paz, dove vive un personaggio davvero speciale, quello dell'Aparapita, l'elemento archetipo della città stessa.
Anch’egli, come l'adorabile adolescente de La giacchetta di Arlecchino protagonista di un altro testo significativo della raccolta, indossa una giacca composta da tanti pezzi diversi per forma, dimensione e colore.
Essi però sono tenuti insieme per necessità dai materiali più disparati che vanno dal filo, alla corda, ai lacci di scarpe e altro ancora, nel senso che qualsiasi cosa idonea alla funzione va bene.
La giacca indossata dall'Aparapita, utilizzando i tanti e diversi materiali, rispecchia anche la struttura urbanistica della città dove caos, ordine e improvvisazione coesistono e si confondono alla massima potenza.
Si potrebbe dire che questa magica giacca nel suo fondere insieme frammentarietà e molteplicità, richiama in un certo senso la peculiarità della letteratura moderna che sempre di più utilizza la tecnica di incorporare materiali ricavati da altre opere.
Insomma la giacca dell'Aparapita è un mondo composto parti in continua evoluzione, in quanto attraverso il lavoro della separazione, dell'unione, del fare e disfare realizza la preziosa arte della riparazione.
Ne consegue che l'atto del riparare mantiene vivo il germe della continuità, il quale, mescolando opportunamente il vecchio con il nuovo, ri-crea sempre qualcosa di diverso.
Lo stesso avviene nella manutenzione delle strade, quando, scassate e screpolate, vengono rattoppate con pezzi dalle forme sempre diverse per dimensione e colore.
Questa attività di aggiustamento rappresenta un significativo antidoto al disfacimento totale e rassicura sulla continuità, testimoniando che, niente si perde nel nulla ma anzi tutto si trasforma nel divenire.
Il volume è introdotto da un'esaustiva e densa Prefazione di Alessandro Fo, che aiuta il lettore a districarsi fra le sue pagine non sempre di facile lettura se non si tengono presenti i tre criteri che in qualche modo lo orientano: “un oggetto, un concetto astratto (e relativo), una condizione; il ventaglio, l'imperfezione, la piccolezza. Tre dimensioni, secondo cui ordinare il possibile caos in una miniatura perfetta nel suo ventaglio di offerte.”

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