giovedì 1 aprile 2010

Su Storie minime di Maria Pina Ciancio

recensione di Monia Gaita (cfr.  cartesensibili.wordpress.com)

Storie minime di Maria Pina Ciancio ha il rigore d’ordine e di norme interne della poesia scotellariana cui si ricollega non solo per la comune postazione geografica d’appartenenza (ambedue gli autori sono lucani), ma anche per certi indicatori contenutistico-semantici che permettono alle parole di uscire dai triti rigagnoli della prevedibilità o dalla troposfera di un nostalgico revival passatista. Le liriche offrono un fotoreportage accortamente rifinito e partecipato di piazze, vicoli, strade e stagioni su cui, a ricanalizzare le vie del perduto e di sofferte emigrazioni “Evaporano i sogni e dentro i sogni / (v. pag.18) / la storia di mio padre / quella di valigie di cartone cotte al sole / trascinate a mani strette / dentro vagoni neri di carrubi… /e un cartello straniero che fa ombra / al taglio della sera in mezzo alle ginestre”, “Le partenze e i non ritorni (pag.16) sono cicatrici lunghe e oscure da curare” ci pensa l’eufòrbia ricorrente dell’amore compiuto ma periclitante per luoghi offesi da mutamenti tossìnici quanto speditivi. L’amore per il Sud ambisce a riconciliarsi con tutta un’intrigante assonometrìa di riti, usanze, tradizioni che la modernità ha travolto, sostituendo all’affetto autentico e genuino tra le persone, una disontogènesi relazionale di vuoto e incomprensioni. La riconoscibilità non è piena se il vomere delle partenze (anche degli elementi naturali) sèguita a lacerare l’identità di un popolo o se a marcare i lidi dell’oggi è sempre più l’incanto intatto e levigato del trascorso “Ce li portano via gli alberi, (pag.31) ad uno ad uno / come gli uomini / ma siamo troppo stanchi per accorgercene”, “Si sono spaccate le tegole rosse. E sono finiti i tempi in cui mio nonno ne faceva ripari per le chiuse e mattoni cotti al fuoco per l’inverno” (pag.30). Nella odierna civiltà trasmutatrice Maria Pina Ciancio fruga e trafuga dai diaframmi separati dei paesi l’albumina di bellezza superstite, semicoperta spesso da sovrimposte sembianze architettoniche in stridente rottura con l’anima antica dei “muri”, delle “tegole rosse”, dei “fiori benedetti”, dei “granai”, delle “ombre dei panni stesi per strada che profumano di vita insieme al pane”. La poetessa quindi, sovviene alle trighe dello smarrimento e dell’alienazione conseguente con una forte volontà a ritenere il salvabile raccogliendo i frutti di un lungo, pròdigo, ispirato lavoro di dedizione. L’istmo che congiunge il mondo di ieri e quello attuale s’adorna anche dei grandi poeti che ci hanno preceduto e Rocco Scotellaro a cui è dedicata la compositǐo fanalino di coda della raccolta, dovrebbe costituire la partitura etica, morale e di rinascita civile di un’intera comunità. Dopo aver letto questo libro capirete che non sono affatto minime le storie raccontate e che accanto al bacino glaciale dei “non ritorni”, il tentativo di ridecifrarsi senza abdicare alle proprie radici, va oltre il fósco degli espropri rivendicando il diritto a un’esistenza consapevole nell’estuario storico di ciò che fummo e ciò che siamo diventati.

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