martedì 5 novembre 2024

Parlare a qualcuno in una lingua che comprende

Se mi conosci… di Vincenzo Mastropirro, Fara Editore 2024

recensione di Barbara Gortan pubblicata su Interzona


La nuova opera poetica Se mi conosci… di Vincenzo Mastropirro, scritta in doppia lingua, italiano e dialetto di Ruvo di Puglia, ci permette di continuare a sentire il legame con le radici della nostra cultura millenaria, una storia antichissima che arricchisce e che studiamo e preserviamo, un bene culturale immenso.
Al centro di questa pubblicazione ci sono la morte della madre, il lutto, il dolore. Le sue parole offrono un modo di vedere l’infinito, l’ignoto, l’assenza e tutte le suggestioni che fanno parte del mistero ultimo della vita.
Questa raccolta si è classificata seconda ex aequo al concorso Faraexcelsior 2024 ricevendo il seguente giudizio da Doris Bellomusto:
“Si apprezza l’originalità dello stile e del contenuto, la vivacità espressiva ottenuta attraverso la sapiente mescolanza delle lingue madri, italiano e dialetto. La silloge è strutturata con delicata attenzione in modo da consentire a chi legge di ricostruire il senso profondo di un viscerale legame con la madre e con la morte.”
Mastropirro manifesta, attraverso l’uso di un linguaggio estremamente espressivo caratterizzato da una modulazione attenta di parole pregne di significati ancestrali, la sua carica emotiva. Incontriamo, pur nello schema libero, una espansione linguistica eccezionale, arricchita da similitudini, metafore, perifrasi, eufemismi, iperboli e allitterazioni. Non mancano tratti di ironia graffiante a beneficio di una loquela mista che spazia dal dialetto alla lingua parlata e dalla lingua parlata al dialetto. L’uso del dialetto è la punta di diamante dell’autore, un bene da custodire e salvaguardare e come dice Pirandello: “Il siciliano e il piemontese insieme a parlare non faranno altro che arrotondare alla meglio i loro dialetti fiorettando qua e là questa che vuol essere la lingua italiana, parlata in Italia”.
Anche Mastropirro ha colto dunque l’importanza e lo spessore del dialetto nell’uso di parole di armoniosa sonorità che dimostrano ampiamente la sua formazione e la sua propensione a rendere con suoni poetici la musicalità che profonde nella sua passione primaria di flautista e compositore.
Parlare a qualcuno in una lingua che comprende consente di raggiungere il suo cervello. Parlargli nella sua lingua madre significa raggiungere il suo cuore, dice Nelson Mandela.
La lingua di Mastropirro è la lingua materna in cui è nato e ha imparato a orientarsi nel mondo. Essa innerva la sua vita psicologica, i suoi ricordi, associazioni, schemi mentali. La lingua delle emozioni, il suo bene più prezioso. Essa apre le vie al consentire, ci permette di entrare nel suo profondo e istintivo humus e nello stesso tempo irrazionale e acritico, quasi insorgesse dalle viscere e fosse connaturato con la sua costituzione biologica individuale. Con una narrazione atemporale, scorrono sentimenti diversi rivolti al ricordo della madre, non tenta di assomigliarle e forse non ci riuscirebbe, ma nello stesso tempo la ammira, la sua forza è in quel bene, in quel legame indissolubile tra figlio e madre. Riusciamo ad immaginare questa donna, bellissima l’esaltazione gradevole a tratti forte e decisa; ogni manifestazione esteriore di lei suscita una sensazione di soavità, di grazia, di una condizione spirituale felice e desiderabile: l’essenza della bontà, dell’innocenza, della santità, il suo essere autentica descritti nella sola espressione: “Mamme, nan s-è mè puste u profìume. Mamme, ère u profìume.”

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lunedì 4 novembre 2024

Una scabra e severa verità

recensione di Alida Airaghi pubblicata su Gli Stati Generali

Scandita in sette sezioni, la raccolta Appunti eoliani di Guglielmo Aprile (Napoli 1978) si offre al lettore in una scabra e severa verità, assunta dalla durezza dell’argomento affrontato, e dalla sua originale consistenza. Quanto di più duro e durevole, infatti, della roccia? Della sua costante stabilità, e persistente indifferenza? Al mondo minerale sono dedicati i versi del poeta, che a esso si adeguano in ponderata classicità, scalpellati in un lessico privo di stratagemmi o virtuosismi sperimentali, e in una metrica sostanzialmente tradizionale che però affida alla spietatezza dei continui enjambements il suo ritmo accanito. Guglielmo Aprile si confronta con l’immutabilità dei sassi, degli scogli, con l’eternità di cielo e mare nel paesaggio solenne ed essenziale delle isole Eolie, e ne assimila l’austera segretezza. Delle rocce intuisce vibrazioni nascoste, vita palpabile che le rende simili alle creature animate, e in primo luogo a se stesso, al suo corpo “che si fa alga o pomice”, alla sua memoria, al suo interrogarsi sul destino umano e non umano: “io levo con lo sguardo un muto appello / e ad uno ad uno i vostri volti interrogo: / chi siete e chi sono io, qual è l’essenza / del vento, della pioggia, come nacquero / le lune, le montagne, i boschi; e a tratti / ho l’illusione che nei blocchi inerti / quasi un sussulto, un fremito si agiti / e che, dentro la pietra, delle bocche / si disegnino, a poco a poco: bocche / che stiano per parlarmi, che potrebbero / sciogliere un qualche oracolo, concedere / solo a me una risposta, rinnegando / il silenzio, il divieto che le tiene / da millenni nel sonno imprigionate”.
La personalizzazione del mondo minerale inizia già dal titolo della prima sezione, Ha un’anima la pietra, in cui sassi rocce scogli vengono osservati con stupefatta tensione, riconoscendo nelle loro grinze, negli squarci, negli ammassi i lineamenti di facce familiari: bocche si animano, occhi si spalancano con l’intenzione di comunicare qualcosa di essenziale, un segreto o forse un’ammonizione, l’avvertimento di un pericolo che sovrasta l’inconsapevole regno animale, l’innocente regno vegetale. Le pietre hanno anime e volti, “volti” citati ben diciassette volte nella raccolta, “sfigurati… esangui, stremati”, nati dal moto ondoso e subito costretti in forme immobili, “convertiti / in capricciose sculture che ostentano / fiere posture michelangiolesche”, “statue di calcare…immobili erme mute”. Rocce nate dal movimento del mare, affiorate da vortici di sabbia, che dai loro profili scolpiti in millenni di vento, pioggia, salsedine, fanno emergere sagome di titani, musi equini, erinni scomposte, opliti precipitati da alte rupi, danzatrici sacre, forzati rinchiusi nelle stive di una galea che sta per affondare. Migliaia di corpi vivi in un passato lontano sono rimasti bloccati in pose immutabili per chissà quale ingiusta sentenza, diventando fossili, pareti o dirupi incapaci di urlare la loro rabbia, la loro sofferenza: “Macigni condannati – è in voi che tutto / il dolore del mondo si è rappreso:/ nei vostri volti di tufo si è fatto / universale archetipo e ci parla”. L’idea di una crudele violazione patita dai minerali inerti, viene ribadita in maniera ossessiva in moltissime poesie ad amplificarne la valenza emotiva, con il rischio tuttavia di renderla meno drammatica e pregnante, pur nella sua innegabile seduzione.

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domenica 3 novembre 2024

“Non so resistere” vince il Publio Virgilio Marone 2024, molto grato alla giuria e all’organizzazione

<premio@publiovirgiliomarone.it> ha scritto:

buonasera

inviamo l’elenco con tutti i premiati (vincitori e menzioni speciali) della V edizione del Premio Letterario Nazionale “Publio Virgilio Marone”.
Vi ricordiamo che la cerimonia di premiazione si terrà sabato 23 novembre 2024 (dalle ore 9) all’Accademia Aeronautica in via San Gennaro Agnano a Pozzuoli, Napoli.
Per chi non sarà presente il 23 novembre, è possibile seguire la cerimonia in diretta streaming.
Coloro ai quali è stata attribuita la menzione speciale potranno seguire la diretta sul sito www.publiovirgiliomarone.it oppure sulla Pagina Facebook del Premio.


POESIA EDITA



Vincitore silloge: Alessandro Ramberti di Rimini con Non so resistere

Menzione speciale silloge a Vittorio di Ruocco di Pontecagnano (Salerno) con La danza delle anime

Vincitore poesia singola: Stefano Boldrini di Milano con “Manuale dei sogni rapiti”


Segreteria del premio “Publio Virgilio Marone”
organizzazione: Associazione Dialogos e New Media Press

premio@publiovirgiliomarone.it
www.publiovirgiliomarone.it
www.dialogoscomunicazione.it
www.newmediapress.it

sabato 2 novembre 2024

“La lancetta prese a sbucciare il medesimo secondo”

Carlo Giacobbi, Erbe d’esilio, peQuod 2024, collana Portosepolto, volume a cura di Luca Pizzolitto

recensione di AR 

Il verso posto a titolo di questa recensione è il primo della seconda terzina che troviamo a p. 47. Ecco i bellissimi versi che lo seguono: “e t’avvedesti il tempo fosse null’altro / se non qualità del sentire, menzogna della misura.”

La raccolta è disseminata di questi tocchi distesi (rari sono infatti i versi brevi, se non nei corsivi a inizio di ogni poesia-sezione) in bilico fra paradosso e aforisma che si insinuano come struggenti fotogrammi di un film à la Rohmer nelle pieghe sensibili delle nostre viscere con una leggerezza persistente. Certo ogni lettore reagisce a modo suo a un testo, specie se poetico; a me sono risultati particolarmente impressionanti (per restare ancora alla metafora fotografica) i seguenti passaggi: “Ti fu chiaro non ammettesse più rinvio l’abbraccio / della fioritura vasta delle ombre.” (p, 48); “La luna lucidava foglie di magnolie.” (p. 49); “I colli dei lampioni erano docce di luce sulla strada.” (p. 50); “La pagina arde mentre la si volta.” (p. 53); “Tu non sai delle cascate di luce che immagino / nei cieli, della gloria di polle luminose” (p. 62); “Ma cova in noi sepolto un urlo: devi esistere devi” (p. 73); “eccezione l’esistere / o la sua estinzione?” (p. 76); “Ma l’esistere in parentesi – come tu dici – / tra nulla e nulla non mi basta.” (p. 79).

I lacerti qui sopra credo possano dare un’idea  dello stile pregnante e senz’altro socratico (per le stimolanti questioni che pone) di Carlo Giacobbi: in queste poesie-sezioni che vanno dalla XIII alla XXIV “in ideale continuazione con Abitare il transito” (p. 7) davvero constatiamo che “più a pensarla più s’affina / la radice dell’ignoto” (p. 10), “che il solco pensa il seme / (…) / ché accogliere / è svelamento di lacuna” (p. 16).

Desidero infine lasciare a chi legge questa immaginifica ed emozionante pittura-domanda (p. 29): 

“Che dire della transumanza delle nuvole
spumose di sole nell’azzurro; del loro pascolo lieto
degli shanghai di luce filtranti tra le chiome

quasi liberati dal pugno appena schiuso di Dio?”

Forse la natura (e noi in essa) è la pulsante nostalgia dell’eternità?  

giovedì 31 ottobre 2024

Alberto Mori a Crema il 10 nov 2024 presenta “Posture” in dialogo con Franco Gallo

Domenica 10 novembre 2024 alle ore 17.30
nelle scuderie di Palazzo Terni de’ Gregorj
via Dante Alighieri, 20 – Crema
Alberto Mori terrà una performance di presentazione di Posture Fara Editore 2024


Lo sguardo multilaterale e attento ai dettagli nascosti e al contempo rivelativi di Alberto Mori continua a sorprenderci. Queste Posture cinematografiche confermano la ricerca inesauribile della sua poetica.

La svolta della vita avvenuta
All’intersezione angolare
denota dall’alto
il cappotto puntiforme avanzante
fra la geometria degli edifici



Ingresso libero fino a esaurimento dei 64 posti
info: libreriacremasca.it

martedì 29 ottobre 2024

Bruno Bartoletti a Sogliano 9 nov 2024

Sabato 9 novembre ore 16:30


Pomeriggio con l’autore Bruno Bartoletti 
letture di Juri Monti


«Che fine avrà fatto questo viaggiatore? Quale meta lo attenderà? Dove finirà questa nave? Sono curioso anch’io di saperlo. Ma, dopo tutto, sono convinto che Marco Belmonte, con le sue manie, i suoi dubbi, le sue fantasie, sia il perfetto rappresentante di una società malata, dubbiosa, incerta… Ma poi, poi altre cose succederanno. Nel frattempo è già scesa la sera e dal vento ascolto ancora quel canto: “Sono partiti tutti. / Hanno spento la luce, / chiuso la porta, e tutti / (tutti) se ne sono andati / uno dopo l’altro”.» (Bruno Bartoletti)



Flavio Vacchetta legge "Errata Complice" di Stefania Giammillaro






















Recensione a Errata Complice di Stefania Giammillaro (Pequod, 2024) prefazione di Franca Alaimo

a cura di Flavio Vacchetta




Errata complice...

uno pensa e si fa delle anticipazioni, dei teoremi persino. Il titolo fa immaginare un'autoanalisi al quadrato, anzi al cubo. Ma imperfetta, impossibile forse. Non so se si usi ancora il termine (lo usai, se posso autocitarmi, per una mia poesia che si intitolava così), ma ci si potrebbe immaginare un colloquio con la propria “coscienza” (o in-coscienza, almeno dai tempi della Coscienza di Zeno). O, forse, l'autoreferenzialità non c'entra nulla, e i motivi dell'errare o dell'erranza (che è anche un vagare) sono prettamente esogeni, così come quelli della complice correttrice o coreggente.

Poi apro, e la poesia in esergo corrobora la prima ipotesi, patentemente, attraverso la figura dello specchio, e il 'tu', che sarà di volta in volta 'montaliano', autocosciente, colloquiale/duale.


Sono componimenti anche di forti contrasti, di polarità apparentemente inconciliabili, un 'odi et amo'.


E anche l'epilogo, volendo, può essere letto come un ritorno a sé stessi, alle proprie radici, che però non può compiersi del tutto:


Figghia sugnu

e matri mi ciamu

senza iabbu né maravigghia pi parenti

senza patiri i dulura

ra nascita

m’arricampu cunzumata

pi chiddi ra morti […]

per voi altri che non credete alla parola data

sorda e malfatta...

 

Nonostante tutto, bisogna ancora credere nella parola, che, nella sua erranza, è essa stessa complice, “ponte”:


La carne è in questo pizzicotto

che giro di traverso per sentirmi

quando non distrae il mare

La parola è ponte che attraversa

la possibilità di perdonarmi

allo specchio dei rimorsi

E se sanguino

sanguinerò per partorirmi.


Ancora lo specchio, l'autogenesi, i rituali di autocoscienza (pizzicarsi per risvegliarsi), il rinvenimento di sé tra passato e presente.


E in questa scomposizione e ricomposizione di un self poliedrico irrompe la molteplicità di relazioni, amorose e famigliari-generazionali (padre-figlio, uomo-bambino) non pacificate, tumultuose.

Si ha l'impressione che una parte cospicua dell'opera si generi dallo “strappo”: si parla di “ferita”, “taglio”, “sangue”... Una lesione apparentemente immedicabile: è “la rabbia del sangue”, una condanna (“condannatemi!”), una “gogna”, che sfocia in dissociazione anche fisica (“non essere come vorresti”).

E lo “strappo” interiore corrisponde, appunto, a quello tra generazioni, e non si ricompone: “ti ho visto piangere, papà”. E riguardo ad altre relazioni: “Saperti proprietario di ciò che non sono / è l’unica vendetta”. Forse a metà tra il montaliano “ciò che non siamo, ciò che non vogliamo” e l'orgogliosa affermazione di sé.

Dicotomie come apparenza e essenza, interiorità e esteriorità, attrazione e repulsione, sono evocate anche dalle immagini classiche della maschera e del trucco, fino al simulacro-essenza della stessa pelle; oppure l'immagine della rosa e delle spine, in perigliosa coesistenza.

Ma quello che consente una permeabilità tra interno ed esterno, alla fine, volenti o nolenti (dolenti), è proprio il trauma, la ferita nelle sue varie declinazioni e accezioni: finché essa è aperta e brucia, c'è vita, fra contraddizioni, inganni e autoinganni:


ridi nel fazzoletto piangi a crepapelle

però chiudi le porte del tuo volto

affinché non dicano poi

che quella donna innamorata eri tu.