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mercoledì 2 settembre 2015

L'Abbraccio di Massimiliano Bardotti su Insubria Critica

recensione di Vincenzo Capodiferro pubblicata su Insubria Critica
L'ABBRACCIO DI MASSIMILIANO BARDOTTI
Una raccolta profonda e stringente di versi appositi


L'Abbraccio è un'opera di Massimiliano Bardotti, pubblicata da Fara, Rimini 2015, Prefazione di Vincenzo D'Alessio. Massimiliano Bardotti, nato a Castefiorentino nel 1976 ha pubblicato diverse opere, tra cui Fra le gambe della sopravvivenza (Thauma 2011) e A cieli aperti (Thauma 2013). È ideatore e docente del laboratorio di scrittura ri-creativa “Cut-up. La sartoria delle parole” 
(proposto anche nel carcere di Forlì). È presente in diverse antologie e blog letterari. L'Abbraccio è stato selezionato alla V edizione del concorso Faraexcelsior. Come annota Vincenzo D'Alessio nella Prefazione: «Questa raccolta poetica è divisa in quattro sezioni, ciascuna delle quali ha come incipit dei versi presi a modello da poeti vissuti a cavallo degli ultimi due secoli: Dino Campana, Alda Merini, Emanuel Carnevali e Arthur Rimbaud. L'abbrivo delle voci poetiche dona alla trama la vastità dell'atto che l'abbraccio rappresenta: protezione, accoglienza “degli umili, degli emarginati, degli orfani, dei naufraghi, dei folli, dei poeti, la lunga carezza dell'abbraccio”.»
L'abbraccio è l'orizzonte immenso che raccoglie gli enti in un afflato di rapporti che congiungono. Ogni uomo, ogni cosa, ogni passione: tutto è legato, tutto è trama. Leggiamo in Patria notte: La notte/ mia patria/ riparo/ corteccia./ Di notte/ rinasco. La notte è l'immensità del buio. La notte è l'abbraccio, perché protegge l'anima dalle “opere e i giorni”. Ed è paradossale perché l'oscurità protegge dal male e protegge nello stesso tempo il male: le opere dell'iniquità avvengono di notte. Ed echeggia Dino Campana: la notte del crepuscolo si attenua./ Inquieti spiriti sia dolce la tenebra. È questo crepuscolarismo che avvolge la poetica del Bardotti. Stiamo appesi alle grondaie/ come gocce di una pioggia che non cade. La pioggia non cade da quel cielo che nei versi di Massimiliano è uno specchio di anime e rimembra stelle cadenti. Ci ricorda il pascoliano 10 Agosto: E tu, Cielo, dall'alto dei mondi/ sereni, infinito, immortale,/ oh!, d'un pianto di stelle lo innondi/ quest'atomo opaco del Male! L'Abbraccio va letto a mozzafiato e fa riflettere sulla vita e sulla terra. È l'eco profondo di una voce che si unisce al coro di protesta contro i soprusi: «L'infanzia che uomini-eroi hanno difeso sacrificando la propria esistenza per sottrarla al Potere occulto delle classi dominanti, alla superbia dell'offuscata sommità di questa maledetta Torre di Babele, che rinnova i suoi gradini con il sangue degli umili, degli emarginati, degli orfani, dei naufraghi, dei folli, dei giudici e dei poeti per raggiungere il vertice acuminato dal quale guardare lo stesso mondo, dal quale parte la base dell'Umanità.» Sono parole profetiche di Vincenzo D'Alessio, non di un “uomo del mio tempo”, senza amore, senza Cristo, ma di un uomo autentico che ha portato sulle spalle la croce, ha vissuto di persona il dramma di un'esistenza, che proprio nella sua verità è stata sempre contrastata. L'Abbraccio è dedicato agli ultimi della vita, ai poveri, agli emarginati, ma è dedicato soprattutto all'uomo che è naufrago della vita, barca destinata al naufragio, come verseggia Govoni: Sul mio capo di naufrago/ galleggiante sul mare nero della vita/ afferrato ad una tavola sfasciata/ materna culla/ vedo ancora ondeggiare le stelle.

Vincenzo Capodiferro

giovedì 8 novembre 2012

Vincenzo Capodiferro su La valigia del meridionale di Vincenzo D'Alessio

recensione pubblicata su Insubria Critica

 LA VALIGIA DEL MERIDIONALE
Un’intensa raccolta di liriche di Vincenzo D’Alessio


La valigia del meridionale e altri viaggi (poesie 1975-2011), prefazione di Anna Ruotolo, è un’opera di Vincenzo D’Alessio, Fara Editore 2012. Vincenzo D’Alessio è nato a Solofra, in provincia di Avellino, nel 1950 e vive a Montoro Inferiore. Laureato in Lettere all’Università di Salerno ha ideato, tra l’altro, il Premio di poesia “Città di Solofra”, nonché fondato il gruppo di cultura “Francesco Guarini” e l’omonima casa editrice. È autore di diversi saggi di storia e di numerose opere poetiche. Ricordiamo solo l’ultima raccolta Figli del 2009, dedicata al figlio Antonio, scomparso prematuramente. Come ha sottolineato la prefatrice «la voce del poeta irpino si offre nuda e vigorosa, a tratti falce interdetta che grida l’ingiustizia (Siamo nani / di fronte al potere oscuro), altre volte sguardo che abbraccia e sostiene la volontà di ribellarsi umilmente ma con determinazione a ciò che opprime la dignità dell’uomo e deturpa l’ambiente e questo nonostante gli insuccessi, le ferite, le bastonate…». Chi conosce Vincenzo D’Alessio, uno dei membri più attivi, oltre che contemplativi, dei poètes maudits del circolo irpino-lucano, sa subito riconoscere il suo stile, sobrio ed intenso, sottile ed incisivo come spada che ferisce e combatte, ispirandosi a quel maledettismo meridionalista. Il tema forte di questa raccolta è l’emigrazione, intesa qui come una romantica, struggente uscita, o “estasi” senza ritorno: di qui il forte senso di “sehnsucht”, una profonda nostalgia, una perenne tensione verso l’infinito, che anima le nuove, ma sgualcite, perché antiche nel senso intimo, paginette dell’intensa e raccolta raccolta di componimenti, breviori e laconici. C’è, come diceva Schelling, nell’Assoluto l’ “Abgrund des Willens”, l’abisso della volontà, per cui le esistenze sono, nel medesimo tempo, una necessità divina ed un male: «questa è nelle cose l’inafferrabile base della realtà, il residuo non mai appariscente, ciò che, per quanti sforzi noi facciamo, non si può risolvere in elemento intellettuale, ma resta nel fondo eternamente». Male che sarà redento quando le esistenze singole torneranno all’Unità primigenia, ma ciò non è previsto per l’emigrante dalessiano. Citiamo solo un punto per rendere l’intera idea dell’opera: A te che sei andato via/ grido: non tornare! / in questa terra che credi amica/ non cercare in fondo al cuore/ il respiro di madre antica / … cerca nella nuova terra/ il tuo destino, lascia ai salici/ la corsa verso il mare. C’è il forte richiamo, però in senso inverso, alla ferma speranza nell’oppressione del salmo 136: «Ai salici di quella terra appendemmo le nostre cetre, perché là ci chiedevano parole di canto coloro che ci avevano deportato», ed anche ad Alle fronde dei salici di Quasimodo: «E come potevamo noi cantare … ?», di cui l’eco forte e silenziosa: Quando potremo riposare? / Terra rimasta vera / solo nei pensieri miei. L’oppressione, invece, in D’Alessio è proprio nella propria terra, una madre matrigna, come una natura leopardiana, un coccodrillo-Crono che divora i suoi figli. Ecco perché la Ruotolo più volte paragona il poeta ad un eterno friedrichiano “viandante sul mare di nebbia”, come quei Figli lontano dal sole / nelle nebbie tristi di torpore…: «dunque il poeta campano, a dispetto dei silenzio e della perdita di punti fermi in una qualsivoglia tradizione è il viaggiatore per antonomasia, sempre in giro e mai troppo lontano dai suoi luoghi».


Vincenzo Capodiferro


domenica 8 ottobre 2017

Il profondo contrasto tra gli elementi – terra ed acqua – nella poesia di Carla de Angelis

recensione di Vincenzo Capodiferro 
pubblicata su Insubria Critica 


Mi fido del mare di Carla de Angelis


http://www.faraeditore.it/html/filoversi/mifidodelmare.htmlCarla De Angelis è nata a Roma e vive nella Capitale. Da tempo è impegnata nella produzione di opere letterarie: poesie e racconti, ma anche saggi. È presente in diverse antologie. Tra le pubblicazioni ricordiamo: Salutami il mare (2006); A dieci minuti da Urano (2010); I giorni e le strade (2014). Saggi: Diversità apparenti (2007); Il resto (parziale) della storia (2008); Il valore dello scarto (2016). L’ultima raccolta Mi fido del mare è stata pubblicata da Fara, Rimini 2017. Come scrive Alessandro Ramberti nella prefazione: «La sua poesia è semplicemente carica di vita, una vita che sa offrire al lettore con un rispetto ed un decoro pulsanti, in grado di fotografare in profondità, ma senza “violare”, capace di donare musica, ma senza cullare … La poesia, come la preghiera, ha bisogno di silenzio, di raccoglimento che spesso (ci confida Carla nella Introduzione) è notturno». Leggiamo qualche verso significativo: «Un atomo di pensiero scompiglia i capelli:/ tutti – parlando di un mondo futuro – / bruciano ogni tentativo di normalità», ed ancora: «(non è il vuoto che fa paura è la sofferenza/ di chi sta accanto a rendere insopportabile/ anche il respiro». Accanto a questi motivi di agonizzante esistenzialismo si erge forte un contrasto tra gli elementi, tra terra ed acqua, terra e mare. Ce lo fa intendere forte questo verso: «Vizi e virtù sono/ in attesa di un nuovo diluvio». La terra rappresenta il finito, il normale, ma anche la routine, la quotidianità, la perdita di senso di tutte le cose. Le virtù tendono a trasformarsi in vizi, a lungo andare… Il mare, invece, rappresenta la libertà, la liquidità (si parla oggi tanto di “società liquida” prendendo in prestito a Bauman), la creatività… la creazione passa attraverso il diluvio. La terra attende ansiosa un nuovo diluvio. La terra è stanca, non produce più, è fatta vecchia! Carla De Angelis ci offre degli specchi di realtà. L’anima è come il mare, le cui onde riflettono le spiagge inondate di gente che passa, lascia le orme per un brevissimo tempo, prima che tutto sia ricancellato dalle onde del temporalismo. Mi fido del mare è uno slancio romanticheggiante verso l’Infinito: ricordiamo Leopardi, quel «E il naufragar m’è dolce in questo mare». La poetessa si fida del mare, cioè di una realtà liquida, che può trasformarsi in qualsiasi cosa – ci viene in mente, a proposito, l’Acqua di Talete, il grande Oceano di Esiodo. «Vedere il mare che non ha più lacrime/ costretto a morire insieme a cento a cento/ costretto a proseguire tra le ferite/ di chi sfinito si lascia inghiottire»: molto forte il tema dell’immigrazione. La tomba del mare nasconde il dramma dei popoli: il Mare nostrum diventa a volte il mare ostile, ma non è colpa del mare! Il mare è contrasto: «È carne o pesce, terra o mare?». Il mare a volte si riflette nella terra, come nell’immagine, quasi vangoghiana del mare di grano: «– il grano maturo sembra mare/ ma profuma di pane –». La terra è terra. C’è il tema forte dell’alienazione del lavoro e lo slancio vitale verso la fluidità cosmica, alla ricerca come Ulisse dantesco senza porti né riporti verso i confini sconfinati, gli orizzonti senza fine. La contrapposizione tra terra e mare è quella tra certezza e fantasia – ricordate il '68: la fantasia al potere! – tra reale e surreale. 
Molto bello, infine, quel tocco ungarettiano: «Io non ho voglia di andare, resto a casa/ aspetto», che ci ricorda il Natale: «Non ho voglia di tuffarmi in un gomitolo di strade…». È una poesia che ritrae piccoli gesti, a volte inconsueti, però è semplice, riporta gli stati immediati di coscienza, i quali si intrecciano e sprofondano nei profondi meandri del mare della psiche. Le contraddizioni si risolvono solo nel mare, nell’appallottolarsi e infrangersi delle onde che si scagliano sugli scogli della terra forte. 
Una lettura bella: ci lascia riflessivi ed attenti, pronti a confrontarci con l’infinito. Chiudiamo con la postfazione di Gastone Cappelloni: «Leggere Carla è rivisitare la storia che è stata scritta per non dimenticarci chi siamo, la riscoperta di un vissuto che rimane, che ci siede accanto accompagnandoci ad abbracciare il futuro grazie al passato.»
Vincenzo Capodiferro
su Insubria Critica

martedì 27 giugno 2023

Profondo commento poetico al profeta biblico


recensione di Vincenzo Capodiferro
pubblicata su Insubria Critica


Figli di Qohèlet. Monologhi sul margine del Libro è una raccolta poetica di Gianpaolo Anderlini, edita da Fara, Rimini, 2023. Scrive Alessandro Ramberti nella "prefazione": «Profondo conoscitore del pensiero ebraico e appassionato studioso del Primo Testamento, Gianpaolo Anderlini si (e ci) immerge nel libro più pirronista della Bibbia, noto per due icastici adagi: “Vanità delle vanità, tutto è vanità” e “Niente di nuovo sotto il sole”».

Forse siamo l’immagine del nulla.

Gianpaolo Anderlini sa tradurci in passi poetici connotati da una sconvolgente attualità verità eterne, antichissime, contenute nei testi sacri. Gianpaolo è intriso di quel Verbo, che a principio era “presso Dio”. È la prima Parola: il Vecchio Testamento, che egli definisce giustamente Primo Testamento. D’altronde la Parola antica è la prima espressione della “Poesis” originaria, la creazione, la poesia di Dio. La poesia di Dio è creatrice ex nihilo. Dio crea il linguaggio originario, da cui sono derivate tutte le lingue. L’uomo, animato da “ubris”, superbia, ha cercato di ricreare quel linguaggio originario, ma invano (Babele). Ed in termini moderni tradurre il messaggio del profeta Qoèlet significa parlare di nihilismo e di scetticismo (“pirronismo” come lo definisce Alessandro Ramberti).

Sette squarci di nulla (quasi nebbia
evanescente) irrompono nel seme
nero del tempo (quando non è notte
e non è giorno, quando il sonno è vigile
e il sogno sembra costruire mondi…


Sono versi intensi, difficilissimi da interpretare, profondi. Ricorre il sette, numero divino ai Pitagorici, apoteosi della temporalità (la settimana santa della creazione originaria che indica il primo ciclo del tempo, il primo nietzschiano “eterno ritorno”). Si fa riferimento a quello stato crepuscolare dello Spirito, di schellinghiana, romantica memoria, al confine tra Notte e giorno, tra sonno e veglia, ove sogno e realtà coincidono. Molto forte è l’espressione “seme nero del tempo”. Il tempo è come il seme che ancora è nella terra e deve diventare ciò che è. Divieni ciò che sei! Il richiamo alle parabole evangeliche granarie è evidentissimo: i semi sono le ragioni seminali degli Stoici e di Agostino, intrisi appunto di questa poesia originaria.

La poesia di Gianpaolo Aderlini è una versificazione che ci invita a riflettere, a meditare sul testo sacro, quindi ha un valore altissimo, euristico, ermeneutico. Quella parola è anche il seme che il buon Seminatore getta in noi, a volte dure pietre, a volte spine, a volte terreno buono.

(continua su Insubria Critica)

mercoledì 10 aprile 2019

Un nuovo canzioniere di Vincenzo D'Alessio

recensione di Vincenzo Capodiferro
pubblicata su Insubria Critica il 10 aprile 2019

Un nuovo canzoniere dal sapore stilinovistico


Nuove anime è una silloge dell’autore Vincenzo D’Alessio – che già conosciamo su Insubria per altre opere – edita da Fara, Rimini 2019. Questa ultima fatica letteraria di Vincenzo ci rivela “miliardi di avi nel nulla”: «Chi può definire l’anima inquieta e bistrattata del poeta, la sua capacità di fare memoria e aprirci gli occhi? …?», così Alessandro Ramberti nella Prefazione si pone delle domande. Anche Heidegger si poneva il dilemma – riferendosi ad Hölderlin –: perché i poeti nel tempo della povertà? Ed Alessandro risponde: «Solo nei poeti, solo nella porziuncola poetica e creativa che c’è in ognuno di noi, magari celata, negletta, sotterrata da cumuli di preoccupazioni o da effimere fiammate emotive, solo in quel vertice sfuggente ed umile, potente e generativo, che potemmo chiamare spirito, troviamo quella scintilla di divino che sa riflettere una verità che ci abbraccia, ci eleva, ci accompagna:

l’amore tiene il cammino
senza scogliere sul mare
del silenzio etereo…
».

La porziuncola sa di francescanesimo! Il tema struggente della poetica dalessiana è un meridionalismo non politico, ma esistenziale, un sudismo non accademico, ma concreto, ma soprattutto la nostalgia del paese, della civiltà contadina.


c’era una volta un paese felice
dove la gente pensava al lavoro
ogni giorno benediceva, quello
che i campi donavano loro

(poesia n. 1)


Tutti sono innamorati di quella civiltà. Basti pensare, a mo’ d’esempio, al leviano Cristo. Levi torna nel luogo dell’esilio. Perché? È difficile tornare nei luoghi dell’esilio. Gli ebrei lo sapevano, quando erano a Babilonia: E come potevamo noi cantare i canti di Sion in terra straniera? Ai salici di quella terra abbiamo appeso le nostre cetre. Il forte tema di questo salmo sarà ripreso dal Quasimodo. Perché tutti ricordano, con affetto, gli anziani, gli adulti, i giovani, quei tempi spensierati della civiltà agricola preindustriale? Forse che Rousseau non aveva ragione?

tornerò da mendicante
nei vicoli trasognati dei paesi
irpini sparsi sui dorsi
di elefanti impietriti

(poesia n. 2)


Anche qui riemerge forte il topos classico dell’Ulisse che torna alla sua Itaca vestito di cenci:

nessuno toccherà le mie vesti…

Questo tema forte del ritorno viene brillantemente centrato da Colomba Di Pasquale nella sua nota critica: «La canzone e le migrazioni. Il poeta fa parlare luoghi e nostalgie … La quieta polvere di Emily Dickinson e scorgo in lontananza un Vittorio Sereni che si sporge su questa silloge».
D'altronde – mi perdoni l’intersezione coi miei versi, ma il tema è fortissimo e coinvolgente e con Vincenzo posso permettermi – anche noi avevamo annotato questo tema della “sinestesia” del ritorno:

… solo tu, pastore ancora rimasto
a transumare, solo tu di una milizia
di guerrieri estinti, solo tu ragazza
trionfante tra le capre sbuffanti,
tediate dalla secca erba, sei rimasta
di uno stuolo antico di amazzoniche
brigantesse. Sei rimasta a ricordare
un tempo che fu. Solo tu gualano,
solo tu zappatore che sempre zappi
con la gobba ricurva sull’angusta terra
ci aspetti al ritorno dall’esilio.


Dobbiamo ringraziare veramente di cuore Rocco e Carmine per aver accolto noi poveri poeti sul sito “Visita la Lucania”: non abbiamo i fondi per pubblicare i nostri versi smemorati! Ma torniamo al nostro Vincenzo:

non piangerò per te
fontana antica abbandonata
al destino da orridi uomini

(poesia n. 6)

E come non ricordare le fontane dei pastori? Ognuna aveva un nome, una storia. C’erano i “pilacci” una specie di vasche, ove si abbeveravano gli armenti. Una di queste fontane antiche si trova ancora sul Monte di Raparo. Ci andavamo ad abbeverare anche noi, come capri, quando seguivamo la cresta immensa del monte che faceva a croce, sulle tracce dell’aereo perduto della seconda guerra mondiale. Un’altra si trova ad Acqua Russo, vicino il podere del nonno Vincenzo: anch’io reco lo stesso nome di Vincenzo e questo nome ci accomuna nell’omen.

ride il fanciullo
dal cuore verde
ha mani nuove

(poesia n. 33)

Vi si respira il panismo naturalistico dannunziano. Anche Gabriele fu ispirato da questo mondo ancestrale: Settembre, andiamo. È tempo di migrare…

non aprite il cuore dei poeti
socchiudete l’uscio nell’attimo
fuggente

(poesia n. 36)

Anche qui non mancano riferimenti classicistici come il carpe oraziano. Il cuore dei poeti è uno scrigno di tesori, ma anche di dolori: è il vaso di Pandora. Aprirlo significa spargere l’angoscia, la nostalgia profonda che proviene dagli archetipi junghiani reconditi dell’inconscio collettivo. È il cuore ungarettiano, come in San Martino…: Ma nel cuore/ nessuna croce manca. È il mio cuore/ il paese più straziato. Come somigliano i nostri paesi abbandonati ai paesi della guerra! Andate qualche volta a Craco vecchia, entratevi entro… avrete delle sensazioni spaventose, di sublimità mistica. Pare di essere sulla luna!

dai capezzoli rossi
delle vigne sai come
l’Autunno dona giorni

(poesia n. 31)

Vincenzo non usa mai la maiuscola, la usa solo per Autunno, personificazione della Natura. Bellissima questa immagine della madre Terra che allatta i suoi figli, col vino/latte, ambrosia dionisiaca! Anche Nietzsche fu ammaliato da Dioniso. Gli Dei ci hanno concesso di partecipare al loro banchetto, a bere il loro succo profumato: il “profumo di mosto selvatico”, come il film … Come non ricordare quando ci mettevano a piedi nudi nei tini a calpestare i grappoli? Ci ubriacavamo al solo odore del mosto! Qui ci è d’uopo ricordare un altro San Martino – non del Carso, ma quello carducciano – : dal ribollir de’ tini/ va l’aspro odor dei vini/ l’anime a rallegrar. Dioniso, padre della poesia, è il dio delle vita/vite. Ci ricorda nondimeno il canto santo: Signore di spighe indori/ i nostri terreni ubertosi/ e le vigne colori/ di grappoli gustosi. Quel colorare ce lo ricorda anche il D’Alessio:

la pergola dell’uva
tinge l’aia cald
a
(poesia n. 33)

Nuove anime ci ricorda – perché no? – quell’esperimento del Dolce Stil Novo. D’altronde Vincenzo appartiene alla setta dei poeti irpini: un gruppo di intellettuali innovatori. La poesia è anima, ma queste anime nuove sanno d’antico: O bellezza sempre antica e sempre nuova. Tardi ti amai! esclamava Agostino! L’antico e il nuovo si baciano in rime sparse ed in mezzo si avverte l’acre odore del “ribollir de’ tini”. È la nostalgia del Totalmente Altro, il ricordo struggente dell’infanzia: Non compagni, non voli,/ Non ti cal d'allegria, schivi gli spassi;/ Canti, e così trapassi/ Dell’anno e di tua vita il più bel fiore. Il poeta è sempre un passero solitario. Tutti i poeti vivono di questa memoria dell’infanzia, anche se tragica, drammatica. Basta ricordare il fanciullino pascoliano, il rondinino che pigola nel nido di “quest’atomo opaco del male”. Quale profonda analogia c’è tra il passero leopardiano ed il rondinello pascoliano!
Vincenzo ci racconta come gli altri questo offuscato “male di vivere”, come Montale, come tutti… Anche in questi versi si respira l’aria della redenzione sociale, cosmica, tipica della Ginestra, che resiste sulle lande desolate dello Sterminator Vesevo.
Il lettore saprà ben apprezzare questi versi concisi e pregni di questa ultima raccolta di Vincenzo D’Alessio.

martedì 25 giugno 2019

Un’opera ironico-didascalica di Caliano: versi sull'universo


Michele Caliano, Theory of Infinity, Fara 2019

recensione di Vincenzo Capodiferro pubbicata su Insubria Critica




Theory of Infinity è un’opera poetica di Michele Caliano, edita da Fara, Rimini, 2019. Michele Caliano è nato ad Avellino il 2 settembre 1963. Vive a Montoro. È un astrofilo datato. Socio del gruppo culturale Francesco Guarini è appassionato di cosmologia e divulgatore scientifico nelle scuole medie e presso emittenti radiofoniche. Theory of Infinity è un’opera poetica ironico-didascalica, ove si trovano intrecciate forme standard, vicine a un linguaggio scientifico adattato al verso, con espressioni comiche, a volte anche molto forti, e diremmo quasi volgari. È uno stile veramente originale. Certe conclusioni ti fanno riflettere: il lettore è portato a fermarsi, ridere e pensare. Ma questa è una bellissima cosa! Per questo potremmo anche dire che l’opera del nostro Michy (ce lo consenta) si avvicina a certe tipologie satiriche con attacchi di fescennina memoria. D’altronde Michy proviene dalla tradizione atellana irpino-lucana. In questo intreccio favoloso la fabula rimanda naturalmente all’Infinito, grande tema, che ha tenuto impegnati e ha tormentato intere generazioni di filosofi, letterati, scienziati, matematici, artisti, musicisti e compagnia bella.

Che sia tartaruga o serpente
niente di male pensare all’infinito
attuale o potenziale.

Da Anassagora a Pitagora a Zenone …

Dal caos aristotelico
ad Archimede curvilineo.

Di Copernico il sistema è eliocentrico
di Galileo è la scienza moderna.

Gli infinitesimi di Cantor dall’infinito assoluto…

Di Einstein l’universo è chiuso
in un cerchio fuso…

Etc., etc.
Non stiamo qui a citare il naufragio leopardiano, anche perché Theory non è un’opera romantica. Tuttavia il romanticismo c’è, ma si è spostato sul piano scientifico, cosmologico. Questo è un fatto culturale: molti scienziati dagli inizi del secolo scorso hanno cominciato a riprendere le teorie cosmologiche ed a inseguire di nuovo la chimera dell’infinito, il big bang e cosa c’era prima del big bang e cosa ci sarà dopo. Queste domande Michele se le pone. Ma se le poneva anche Agostino: cosa faceva Dio prima della creazione? Si guardava allo specchio: prima cosa mi creo io (Io sono Dio), e poi? Poi… Boom! Una grande esplosione: bing, bing… bang… Dovremmo chiederci come fece Cartesio: chi è che ha messo questa idea, cioè “Infinity”, nella mia testolina? È innata! L’infinito è diverso dall’infinità: lascio al lettore la riflessione sulla differenza… Oggi la poesia, poi, non è più considerata la foriera del vero. Ecco come risponde Michele:

Noi siamo l’universo cosciente
(principio Antropico universale per
Tutti gli esseri intelligenti e coscienti)
Prima e dopo non c’è nulla, niente.

Noi siamo il pensiero
unico e vero
(filosofia orientale ed occidentale) …

Noi siamo l’infinito degli infiniti…

Ecco! Abbiamo dato un’idea di come si muove Michele: stile libero, sciolto. Prima di procedere vorrei lasciare alla mente del lettore un’altra domanda: che differenza c’è tra nulla e niente? … Il principio antropico, forte, debole (non stiamo a rammentare i deboli di mente di Vattimo), da chi fu formulato? Kant: la rivoluzione copernicana del Soggetto. Ma in fondo, se ci pensiamo questo principio ci dà ragione fortemente, cioè dà ragione alla cultura italiana: l’Umanesimo. La scienza sta recuperando l’Umanesimo. E questa è una grande impresa. Poi, noi siamo la punta pensante e cosciente dell’iceberg freudiano dell’Universo. L’Universo non è una cosa, ma una Persona. Questo mette bene in evidenza il Nostro! Certo non è facile riportare la scienza in versi dopo la separazione delle scienze della Natura da quelle dello Spirito. Oggi la formazione, come già sottolineava Geymonat, è ingabbiata in compartimenti stagni. Questo è il rischio. Siamo vittime della lezione del postmoderno di Lyotard: ogni valore è atomistico. All’interno del quadro molecolare dei saperi già si raggiunge una verità relativa, per cui è inutile ricorrere a narrazioni metafisiche. Purtroppo non è così, perché i pensieri non sono atomi, non sono le proposizioni protocollari dei neopositivisti logici. Anche il postmoderno è una grande narrazione metafisica. Ma volete che la gente comune usi le “proposizioni protocollari”? E che so’? O anche gli scienziati si imparino a memoria le proposizioni atomiche, o protocollari. E che se ne fanno? I neopositivisti viennesi forse si erano fatti una birra di troppo! C’è un sottile filo conduttore che collega ogni forma di pensiero e di vita. L’Universo è un tutto e lo possiamo guardare solo come un tutto, cioè seguendo dei principi gestaltici: così fece anche Einstein. L’opera di Caviano rivela che lo spirito umano è universale: è scientifico ed umanistico insieme e nello stesso tempo. Le scienze della Natura e dello Spirito sono prodotto dell’uomo e non viceversa: questo è il principio antropico. Noi siamo la mente dell’universo: questo è l’intelligent design. Dobbiamo superare questo feticismo della scienza. L’uomo è il creatore di tutte le scienze. Nella poesia, che riprende la poiesis, o creazione originaria dell’universo, possiamo raggiungere questa sintesi meravigliosa tra la parte destra e la parte sinistra del cervello, tra l’intelligenza A e l’intelligenza B. Siamo come due mezze facce incollate in una simmetrica unità: due mezzi uomini incollati. Ragione e sentimento sono incollati. Tutti gli esseri viventi rispettano questa unità simmetrica tra i nietzschiani apollineo e dionisiaco. Forse a questo alludeva il mito della mela di Platone, la famosa mela di Adamo ed Eva. Hegel diceva che la mela ha procurato tre danni irreparabili all’umanità: il peccato originale, perché fu mangiata da Eva, la guerra di Troia – Elena – e la gravità – Newton. Ed è vero. Oggi anche la gravità è stata superata. Il Demiurgo prese due parti e le mise insieme in un insieme meraviglioso.

Il cosmo è dentro di noi (Carl Sagan)
di esso noi siamo autocoscienza
di tutta l’energia e della materia
possiamo fare esperienza
(anche quando ci fa male la panza)

Bella questa citazione che ci ricorda i nostri umanisti: l’uomo è microcosmo. Ficino: copula mundi! Pico: magnum miraculum! Alberti: faber fortunae suae! L’umanesimo aveva raggiunto la sintesi meravigliosa dei due cervelli in Leonardo, l’artista-scienziato, il vero inventore del metodo sperimentale, ripreso da Galileo.

Michele ci dà anche dei principi universali molto forti di cui citiamo solo alcuni:

2. Non c’è limite al nostro desiderio di sapere…
3. Nessuna differenza tra scienze e religioni…

Finalmente si deve superare questo atavico contrasto tra ragione e fede, come pensava anche Spencer. Questo contrasto dura oramai dal Trecento, quando il barbiere Occam, col suo rasoio, tagliò la metafisica prima di Kant. Materia e Spirito sono due aspetti dello stesso universo. Il dualismo tra teorie corpuscolari e teorie ondulatorie lo dimostra. L’universo è mirabile sintesi di massa ed energia, cioè di materia e spirito E=mc2. La teologia dovrebbe studiare il mondo dell’energia, la scienza quello della massa.
Theory ofInfinity si pone come opera didascalica, cioè atta all’insegnamento, è un’opera semplice, ma non semplicistica. Si pone in maniera volutamente popolare. Ed usa la bellissima spada a doppio taglio dell’ironia, quel “riso” aristotelico che fece impazzire Eco. Un’arma che risale a Zenone, ai Sofisti, a Socrate e scivola fino ai nostri tempi. È un’opera adatta a tutti: può leggerla disinvoltamente lo scienziato o il letterato, il ragazzino delle scuole medie, fino alla persona comune. Per questo è universale. Il tema dell’infinito, poi, come sempre è sempre affascinante e ci pone delle domande esistenziali molto forti. Quelle stesse domande che si poneva Petrarca, il padre del nostro umanesimo: io infatti mi domando a che giovi conoscere la natura delle belve e degli uccelli e dei pesci e dei serpenti e ignorare o non cercare di sapere la natura dell’uomo? Perché siam nati? Donde veniamo? Dove andiamo?