mercoledì 29 gennaio 2025

            LASCIAMI ANDARE, DI IRMA KURTI





Lasciami andare, prima che sia tardi,

verso una terra dove c’è luce e sole,

sulle spiagge vergini senza tracce, lì

dove un’onda mi bacia con passione

e la conchiglia ha la forma del cuore.

 

Tu, lasciami andare prima che questo

sentimento mi faccia annegare in un

oceano immenso e turbolento, prima

che io resti sospesa sulle ali del vento

come una foglia nella notte d’inverno.

 

Fuggire via in un giorno qualsiasi con

un bagaglio zeppo di parole non dette,

con i gesti che non ci siamo scambiati,

con gli sguardi colmi di gioia e lacrime.

 

Lasciami andare prima che sia tardi!

martedì 28 gennaio 2025

Gina Cafaro su Incroci on line recensisce “la poesia del sangue” di Vincenzo Mastropirro

Vincenzo Mastropirro, “Se mi conosci…”

Posted  on: 25/01/2025

Vincenzo Mastropirro, Se mi conosci…

Fara Editore, Rimini 2024

di Gina Cafaro

Lì dove può, la poesia traguarda vette di una intensità tanto struggente da far male, come una rosa che incocca la sua spina. Sono fra gli esiti migliori della raccolta Se mi conosci… di Vincenzo Mastropirro, ruvese di nascita e bitontino di adozione, poemusico ― come ama definirsi ― molto attivo sui due fronti della poesia e della musica, spesso melangiati, così come accade per l’uso della lingua e del dialetto.

Il titolo del libretto rimanda all’ammonimento di una madre, al suo “bada bene”, da un lato, e dall’altro al rovello di un figlio intorno ad una conoscenza che più intima non si può, eppure è aperta a sempre nuove interpretazioni e resta sospesa su un vuoto sempre da colmare. La conoscenza che si invoca è quella che sulle strade del sangue è in grado di percorrere l’abissale distanza e l’abissale prossimità del rapporto madre–figlio, quella conoscenza che arriva, infine, come condizione ed esito, allo stesso tempo, della fatica poetica. Una conoscenza che può prescindere dalle parole, forse, ma non dalla poesia del sangue. Al centro si accampa un mi in cui si situano il soggetto e l’oggetto insieme, che trapassano fluidamente l’uno nell’altro come solo fra mamma e figlio.

Alla madre è rivolta la passione del “tu”, che appassiona e fa patire, ma crea un rapporto indissolubile che buca il visibile. Il principio di realtà, denso, robusto, sfocia nell’enigma dell’amore. Certo, come racconta nell’Introduzione, all’indomani della perdita l’autore ha staccato la penna dal foglio e ha lasciato trascorrere alcuni anni: si è preso, alla fine, la distanza temporale che salva, quando salva, se salva…

La madre ha una pianta, la madre e la sua pianta, la madre è la sua pianta («La chjande, …/ la vole vedaje…// La chjande, u è sapìute / ed è fadegòte ‛nzìme. Assè»): i possessivi si spostano e fluiscono l’uno nell’altro senza discontinuità, senza barriere: in questo campo, forse in ogni campo, tutto è uno. Ma le mamme sono figlie di altre mamme («Ho sovrapposto / il volto di mia madre a quello di sua madre.»): se c’era una pianta è diventata la pianta madre, madre di generazioni che portano a spasso il sangue e compiono destini.

Intorno alla madre scomparsa si intonano i carmi beneauguranti di accompagnamento alle nozze, si ricompone il cerchio delle presenze familiari, Gina, Silvia, Michele ed Erika, guardati con occhio tenero e acuto, che lavora a sbalzo le figure o le diluisce nella corrente delle parole e della musica, prima che arrivino le trame dell’oblio e gli inevitabili vuoti.

Il Se mi conosci… si riflette allo specchio e la morte, maestra di riti, insegna a inanellare le generazioni, al di là del capire, oltre il capire, anche senza capire… («Sto cullando mia madre / con le note di una lunga ninna nanna /…/ loro ascoltano, imparano, la cantano con me senza capirla»). Non solo, incredibile a dirsi e da dirsi solo a mezza voce: la morte diffonde, sparge, dissemina bellezza: «e gli occhi fascene ’nammeròte cu taiche / con te, trovano sguardi di bellezza». Il poeta avverte tutto il pudore del canto: si può cantare solo in una terra libera. Qui il canto va e viene dalla gola al sorriso della madre, alla terra, alle zucchine, alle parmigiane.

Mettersi nei panni della madre vuol dire fare l’esperienza della scala, ogni scala, che si allunga, mentre i gradini diventano tanti, si moltiplicano, le gambe cercano e perdono i piedi, impossibile salire, impossibile scendere, si allunga la scala e a somiglianza di quella di Giacobbe dà la scalata all’infinito. La scala si arrampica fino al cielo e compie il miracolo: retta da chi possiede la radice del tempo, inaugura il volo.

Piena è la vena surreale, incisa dal dolore e le contorsioni immaginifiche e verbali ne seguono da vicino i contorcimenti. La ferita segue strade impervie e sconosciute, segue il suo destino, mentre ci si destreggia con lunghi nastri di candide bende.

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domenica 26 gennaio 2025

”… alla mia devozione / per un mare che mi naviga senza ancoraggi…”

Angela Caccia, Di lentissimo azzurro, Campanotto Editore 2024


recensione di AR

“… come Giacobbe e la sua anca rotta / poter lottare col proprio Angelo / per guadagnarsi un nome” (p. 11): con questa biblica terzina si chiude la prima poesia della raccolta. In quella successiva troviamo, in riferimento alla condizione umana: “la bandiera che ora si ammaina e / ora si innalza” (p. 12). A p. 13, nella terza poesia, occhieggia il verso eponimo: “Scritta a mano / di lentissimo azzurro / (…) / Tra scritto e ricordo / il nostro tempo scaduto / ci sono fiori che invecchiano in un giorno / e ricordi / che sfuggono le notti per farsi transiti / piccole vertigini di un lontano / da cui non si guarisce”.
Angela sa che “la verità / viaggia su auto di seconda mano” (p. 16); “che la parola è concava / sorride di sé – e di te - / e continua a galleggiare nei suoi silenzi.” (p. 17). Ha uno sguardo “sempre / in bilico / tra gli occhi in avanti e il cuore in ritardo” (p. 35) che inquadra i momenti, i fatti (anche tragici) e li ”sorprende” facendoci sussultare: “le statue a mezzogiorno che / vibrano sull’asfalto e pare / sudino anche loro.” (p. 19); “ma  solo al largo / nei cerchi d’acqua più cristallina / risuona ancora il grido annegato” (p. 23, ricordando il naufragio di Cutro); “La vita si è fatta fuga in un attimo / nessun verso viene più in pace” (p. 26).
Queste pagine sono un dialogo serrato con il vissuto, la realtà, il proprio fare poesia che “… è pane leggero / – rosa / sosta in due sillabe di bellezza” e ci fa essere “… grati / all’abitudine  del vento che sposta / al sole il canto degli uccelli” (p. 28), che l’ ”… estate è fiducia che le crepe fioriscano” (p. 32), che ”Siamo terra / suoi e tuoi tragici intagli – altrimenti / resta la forma dei nostri desideri – / insieme / solo nell’inconfessato  pensiero / di saperci / tutti / nello stesso Caravaggio / tutti in quel dito / che trema / e sposta la pelle di Te risorto” (p. 34); ”fossi di silenzio / mi poserei sulle cose ricche di tempo” (p. 36).


La voce di Angela ha un timbro intenso, un ritmo dalle cesure abissali, oscillazioni di pensiero inquietanti che ci pongono al limite di ogni scelta, di ogni benedetta pulsione, di ogni lasso di vita che connette il desiderio alla mancanza terribile e fascinosa che lo fomenta. La lingua è affilata e si distende su versi nitidi che però sballottano certezze e accomodamenti… Del resto nessuna canzone nasce dal quieto vivere, nessuna poesia dall’inerzia di chi allontana i ricordi penosi e non sa fare i conti con le proprie crepe, occulta le proprie ferite anche a sé stesso e si adagia in un sonno mortifero.
Il messaggio della poetessa di Cutro è apocalittico, rivelatore, svelante. Coglie i segni di cui la vita è ricolma (se apriamo gli occhi) e ce li offre vividi perché li ha attraversati. Si fa compagna al nostro cammino con l’umiltà di chi sa di essere come noi un’anima pellegrina, senza alcuna verità in tasca, ma capace di farle spazio e di scoprirla negli altri con la pazienza azzurrina delle sue dita che modellano l’argilla con la maestria di chi ama.
Ancora qualche lacerto: “Mi pesa la parte di me ferita che / carico ogni giorno sulle spalle / con la stessa cura di Enea per Anchise” (p. 39); “Siamo come questo papavero: / solo un sobbalzo nel giallo del grano” (p. 40); “si delineano distanze tra noi / e un plotone di vuoto – le accorcia” (p. 46); “il nostro imperfetto accade” (p. 66). Quest’ultimo verso, che chiude la raccolta, mi fa brillare il cuore.


PS Il titolo di questa recensione è tratto dalla dedica iniziale.

Un’epoca incapace di peccare

Gianfranco Lauretano, Questo spentoevo sta finendo, Alla Chiara Fonte, Lugano, 2013 e Questo spentoevoGraphe.it 2024



recensione di Flavio Vacchetta

L’intensa silloge di Gianfranco Lauretano si tinge fin dal titolo, e dall’iniziale citazione di Caproni, di ombre autunnali e nostalgiche, e pare poco incline al canto spiegato, ma rimane, nonostante tutto, abbarbicata a un miraggio di superiore armonia, anche se “nulla cosa per legame musaico armonizzata si può della sua loquela in altra transmutare sanza rompere tutta sua dolcezza ed armonia”.
In corsivo appunto Caproni, che riprende il Dante conviviale, il quale però, nell’affermare lo statuto superiore della poesia, ne attesta anche la sostanziale intraducibilità.
Così pure la prima poesia della raccolta, dedicata alla madre piena di grazia, stabilisce un’analogia con l’esergo caproniano (si leggano a confronto i due testi): la voce “occlusa”, “rinserrata” sta alla “paralisi” che “strazia”, ai “muscoli che non rispondono”, all’assenza di “ricordi di bellezza”, come l’armonia del legame musaico sta a una “brezza”, a un “residuo di energia” della madre che, invocata, “entra nella stanza” facendo “ali stese” di quelle filiali “braccia tese”.
Anche la poesia successiva inizia in tono retrospettivo, “Non ho scritto altro che d’amore”, e poi volge sì al presente, ma il poeta quasi si ritira come spettatore, come se l’amore non avesse bisogno della traduzione poetica, forse perché “a quel modo ch’e’ ditta dentro vo significando”. C’è in queste poesie (a proposito del problema della traduzione cui rimanda la citazione dal Convivio) un tensione verso l’autenticità, a più livelli: così nel dialogo, dicotomico, tra corpo e anima, prima si tenta un’autoauscultazione alla ricerca di “segni di vita”, e poi si aspira a una ricomposizione di questo annoso dissidio.
Ma poi emerge la forza polemica, caustica, di una voce che si allarga dall’ambito personale a quello collettivo, come nel componimento eponimo Questo spentoevo sta finendo, o in La bestia. Qui si disegnano immagini quasi apocalittiche, millenaristiche, profetiche (e perciò ancora dantesche), tra il “puzzo di zolfo”, “il lupo”, “la bestia”, associate a cattedratici, politici, anchormen… Di converso, si aspira a una salvezza di stampo evangelico, come in Il valore, o in Dio non c’è: ma non c’è solo perché “è altrove”, lontano da coloro che, “sterili di figli / e di peccati, neppure di quelli / sono più capaci”. L’uomo evoluto non è più nemmeno quello che, secondo Ungaretti, “per pensarti, Eterno, / non ha che le bestemmie”.
In altri termini, semplificando, la domanda è: siamo noi una società relativistica, indifferente, amorfa, prona al mercato, quanto più si dichiara inclusiva e democratica?
“Le magnifiche sorti e progressive” d’altronde sono subito richiamate da una iterata Risposta a Leopardi che prende spunto dal canto Alla sua donna.
Forse potremmo dire che, della “cara beltà”, il nostro poeta ama, inguaribilmente, le manifestazioni e le incarnazioni concrete, sebbene incompiute, provvisorie, mortali - e seppure egli lontano dal “novello aprir” di giornata -, laddove il Giacomo pone l’accento piuttosto sull’irriducibile idealità di una beltà che è più panteistica di un semplice ideale di donna amata, e infatti la ritrova nel sonno, “o ne’ campi ove splenda / più vago il giorno e di natura il riso”.
Piuttosto, comune tra i due poeti ci vedo invece la considerazione in cui tengono la propria età: “nel secol tetro e in questo aer nefando”…
Vi è un’altra poesia divisa in più parti, Dare del tu. Dovremmo partire dal presupposto che “intuarsi”, per usare non troppo a sproposito le parole del solito e sommo Dante (a proposito, in Alla sua donna c’è “indiarsi”), non è questione grammaticale da prendere a cuor leggero. L’inflazione dell’uso del tu produce talvolta una vicinanza illusoria, posticcia e fastidiosa. Ci sono, si dice qui, tanti modi di dare del tu, ai bambini come all’amore, al corpo, e soprattutto a una voce “non di questo mondo”, all’“assoluto”. Ricordiamo come si rivolge San Francesco a Dio nel Cantico delle creature, ma in fondo anche la preghiera del Padre nostro.
E infine vi è un rapporto col mondo, con le cose, un po’ francescano. Si avverte sì un desiderio di rifondazione del mondo, abbiamo detto, ma è proposto in modo tutto sommato dimesso, senza troppi clamori: così una nevicata (Lo spirito della neve), appunto in sette giorni come nella storia della Creazione, può farsi simbolo di rinascita.
Anche nell’ultimo componimento, Gesù non devo dirti niente, si ravvisa da un lato l’esigenza di porsi in contatto intimo con Dio, di cantarne le lodi, e dall’altro il riserbo, la deferenza, il timore di dire troppo, perché a pronunciarlo, il nome di Dio, come un grande uccello, può volar via dalla gabbia, scrive Mandelstam qui citato a suggello, e così si torna al problema della voce che vorrebbe liberarsi e librarsi dalla sua prigionia, ma non è semplice, specie per chi soppesa le parole.

Laura Caccia legge Levels di Alberto in Carte nel Vento, Gennaio 2025


Alberto Mori, da Levels, Fara Editore 2020, nota di Laura Caccia - Passaggi a livelli

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Passaggi a livelli

Quanti piani si intersecano in Levels, opera in cui Alberto Mori esplicita alcuni livelli e altri ne lascia intravedere? Appare un graduarsi dal basso verso l’alto, evidente nei titoli delle tre sezioni: ‘low’, ‘medium’, ‘high’. E, insieme, un convergere dei livelli, nel punto in cui si incontrano i desideri del cielo e della terra, come viene anticipato dalla poesia, posta in esergo, di Kikuo Takano, che nell’immagine dell’albero fa confluire, in una sola, le forze opposte di cima e radice, quale unità dei contrari nell’intero. E, ancora, un mantenere i piani in equilibrio, dall’etimo stesso di livello, come esemplificato in alcune poesie a due colonne separate e allineate, in contrappeso come una bilancia a due bracci oppure come una livella. E, nello stesso tempo, un posizionarsi ad un livello di soglia, che i passaggi testuali lasciano scorgere, per l’accesso, in sequenza e insieme in affinità, al principio, al corpo, all’oltre.

I livelli appaiono mobili, spesso invisibili, come viene dichiarato in premessa: «Livelli mobili scompaiono alterni». Scandendo i transiti, gli attraversamenti, le contaminazioni nei tre specifici stadi in progressione. «Verso radici senza immagini»: lungo le impronte e le tracce dei passaggi e della scrittura nell’estensione orizzontale delle acque, delle strade, dei fogli e dei loro sostrati oscuri, in ‘low’. «Fra gli sguardi del corpo»: attraverso gli affioramenti di natura e civiltà, da cui emergono le luci e «la voce sfarina», nella dimensione corporea, in ‘medium’. «Nel volo avveduto di sole arie»: tra orbite e «nubi oscure all’aria / Invisibili al segno terrestre», nella tensione verticale verso la sospensione e l’assenza di gravità, in‘high’.

Attraverso la compressione essenziale del senso e il distillato della parola, Alberto Mori prosegue la sua ricerca nel concentrare elementi concreti e rarefatti, quali stazioni e silenzi, vagoni container e balzi d’umore, creando microtesti densi e ariosi al tempo stesso: «Valichi bianchi sopra il foglio / La mano mancina scrive aria / Rarefa grafia esitata e ripresa». Dove i movimenti poetici coinvolgono la percezione della realtà esterna come della corporeità, della mente, dell’inconscio. E anche, nei suoi diversi livelli, della parola: scritta, a voce, pensata. Se l’oralità è il punto di forza dell’autore, gli altri livelli, di pensiero e scrittura, sono ugualmente e intensamente presenti. Quale in basso e quale in alto? Come per l’albero di Kikuo Takano, nella poesia si incontrano, fino a coincidere in un’unica forza, i desideri della terra e del cielo, delle profondità e dei voli, delle radici e delle cime della parola.

 

Da: Low

 

Prelude attesa per bikers

Immagine franta dai tempi espositivi

Struscia sfreccio curvo del passaggio

Crome sfocate nella pedalata sottile del ritmo

 

***

Le ruote ormai improntano il foglio

Fra le tracce sulla carta

scrive di non conoscere gelosia per lei

La ama da sempre

Lo scritto resta a perire sulla ciclabile

 

***

Le spalle delicate

Valichi bianchi sopra il foglio

La mano mancina scrive aria

Rarefa grafia esitata e ripresa

 

***

La stazione disgrega inagibile

Qui preme tempo naturale

Incrina strati

Accorda piccoli sterpi nei sassi

dove fra efflorescenze sparse

respirano silenzi d’aria e polvere

 

 

Da: Medium

 

Corpo seduto Capelli disciolti

Dalla nuca equilibrio in riannodo

 

***

Dove sticker non incolla & scrosta

il millimetro mancato sillaba

La voce sfarina sulla pellicola del muro

 

***

Qui puro balzo d’umore vitreo

materia traluce spaiata dai bagli

L’altro lato senza ottica rifrange

 

***

Nell’aria umida profondano margini bui

La piccola strada discende e risale

Le luci affiorano vicine e lontane

 

 

Da: High

 

Gravità dissolta

Tempo dismesso

Perdura vacante

 

***

Il buio dilegua alla prima luce

La terra allenta ombre

Depone arie accese

Concresce cielo

Millimetri di spazio

Corpi migrati dalle sillabe bianche

 

***

Tratto illetto

Nuvola illesa

Piogge papille

Lingua nasconde

Ripassa veglia

Neutro crea

 

Sapore del cielo

 

***

Ondulo diviene solco radiale

L’anello ruota ad accerchio

Orbita

Porta nubi oscure all’aria

Invisibili al segno terrestre


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giovedì 23 gennaio 2025

Ecco i poeti vincitori del Concorso Narrapoetando 2025

 Grazie di cuore a tutti i poeti che si sono messi in gioco, ai giurati Anna Ruotolo, Carla De Angelis, Donatella Nardin, Matteo Pasqualone, Mattia Cattaneo e Ruven Latiàni della sez. Poesia (per la Narrativa/saggio vedi qui) per l’attento e competente lavoro di valutazione, e complimenti ai vincitori!


Narrapoetando 2025
sez. Poesia

I class.

Piccolo bestiario
di Alessia Boldrini (Riccione)


Alessia Boldrini è nata a Rimini nel 1992. Trascorre i primi vent’anni della sua vita guardandosi intorno spaesata, leggendo, accumulando una notevole quantità di lezioni di vita, dipendenza da progetti fai-da-te e una laurea inutile in Lettere Moderne. Non paga di ciò, a venticinque anni si iscrive nuovamente all’università nella facoltà di chi ha voglia di continuare a prendere lezioni di vita per i successivi quindici anni, Psicologia Clinica. Inspiegabilmente, comunque, tutto sta funzionando. Vive e lavora a Riccione, dove organizza in un collettivo informale e appassionato letture e confronti tra poeti e prosatori locali. Non ha elenchi di premi perché non partecipa quasi mai a concorsi e l’unica cosa che ha vinto in vita sua è stato un peluche gigante di Pikachu ad una tombola natalizia. E una scatola di Ferrero Rocher.

«Versi in cui sono presenti affondi originali e fulminee intrusioni e intuizioni da cui traspaiono, talora, sia una sottile ironia che, di contro, una soffusa malinconia. L’atmosfera leggermente straniante all’inizio cede presto il passo ad aperture semantiche che vivificano il dettato rendendolo maggiormente fruibile. Tale incedere sollecita un “tu” emblema forse di una umana condizione che, nella fragilità ontologica, mostra tutti i suoi limiti ma anche le sue infinite possibilità. Perché in fondo siamo un “Fisico pulsare / di pulsioni metafisiche” e la poesia, attingendo ad un respiro universale comune, sa conciliare e sanare gli opposti.» (Donatella Nardin)

«Già dal titolo, si scopre che enucleare un’esperienza di visione si rende necessaria alla reiterazione di gesti verbali compiuti nella provincia dell’immaginario totale. Questi esseri comuni in elenco diventano non più animali, ma momenti a-storici della pluralità dei linguaggi: il problema dello stare dentro un Universo scompare a vantaggio del passare da un universo all’altro. C’è movimento… Apprezzo di questa silloge gli spazi e i luoghi ricavati tra strofa e strofa, tra sezione e sezione, tra universi di senso e universi di visione… Ogni tanto accade un vibrante deragliamento dalla comune vita a vantaggio della necessaria caduta dei letterari lughi comuni… Soprattutto qui risuona il dettato di questa poesia. Ed è in questo ’minimo passaggio’ che l’autrice, nel mestiere del fare questi versi, sa camminare nel suo privato parco di animali indossando i panni di un ulteriore nostalgico ’Rimbaud’ in preda alle sue illuminazioni … Nelle sezioni successive (Le conseguenze dell’essere imbelleDelicatessen e Divertimenti), l’autrice incontra drammaticamente sé stessa, animale psichico tra i suoi animali…» (Ruven Latiàni)

«In questo bestiario sono le figure di animali, reali o mitologici, a dare senso e spessore all’umano. Così
, l’immedesimazione nella natura animale appare necessaria per tornare abili a uno sguardo onnicomprensivo della vita, del dolore, della lontananza e dell’abbandono. Non solo, ogni residuo di selvatichezza non viene dalla natura ma, al contrario, dalla crudeltà della ragione che soltanto quando passa dagli occhi viene come purificata e si pacifica prima di tornare a dire, senza pietà. È una raccolta ancestrale e moderna assieme, vivida e cruda, amorosa e amorale. Una prova riuscita di una scrittura piena e conturbante.» (Anna Ruotolo)


II class. ex aequo

Come un’arancia dolce
di Vanna Corvese (Caserta)


Mi presento con le rughe e i capelli bianchi. Sono nata alcuni anni prima della dichiarazione di guerra del Duce! La mia infanzia è stata segnata dalla paura e dalle privazioni, ma anche dall’affetto di una famiglia piena di talenti, dallo spirito critico dei nonni e dall’ironia sapiente delle storie che mi narravano. L’esperienza di quegli anni ha trovato spazio in un romanzo breve: Quando il giorno verrà dei millinfanti; ma prima di questo racconto ho scritto e pubblicato sempre poesie, con poche incursioni nel mondo delle favole. All’alba del Terzo Millennio, la mia raccolta Incanto Disincanto mi procurò la gioia insperata di un primo premio al concorso della casa editrice Marotta & Cafiero di Napoli. Sono convinta che la poesia aiuti a rendere migliore il nostro mondo.
Condividono con me la speranza di un futuro migliore gli amici “diversamente giovani” del mio laboratorio di lettura e scrittura, ciascuno con la sua voce libera e inconfondibile.

«In questa raccolta così intima e profonda troviamo un verso discreto e ricolmo di dolcezza. Non ci sono sbavature, nessuna ridondanza formale, ma solo l’essenzialità di un’esperienza dolorosa che si fa poesia. Davanti alla scabrosità della morte, allo strazio per la separazione dalla persona amata si potrebbe abusare di parole rabbiose e violente, inveire contro il cielo e il destino, chiedersi il perché di domande senza risposta. Ma non qui. La donna che assiste nell’ultimo viaggio il proprio uomo è capace di rileggere la loro storia intensa, mescendo con sapienza gratitudine e nostalgia. Nasce in questo modo un moderno Cantico dei Cantici, un inno quieto e possente a una vita di coppia che è stata capace di dare felicità ad entrambi. Perché è vero: davanti all’amato siamo nudi, sbucciati Come un’arancia dolce, senza difese. Eppure brucia in noi la felicità della reciproca appartenenza. E, in fondo, siamo certi che, nel momento del distacco, nulla dell’amore che è stato svanirà. Attraversiamo i giorni della nostra vita insieme nella sottesa consapevolezza che forte come la morte [e forse ancor di più] è l’amore. (Ct 8,6b)» (Matteo Pasqualone)

«Quando è Poesia senti le farfalle nello stomaco e deglutisci la saliva per assaporare ogni verso.
Quando la poesia diventa narrazione, e racconto, ma resta Poesia, senti che i versi dalla mente scendono al cuore e viene voglia di dare voce alla vita, invece taccio e continuo a leggere con gli occhi che fanno il pieno di struggente dolcezza, le labbra tacciono per non offendere i sentimenti che hanno spinto lo scrittore a mettere in versi la vita , come a esorcizzare il dolore. È un fluire di versi attraverso parole che arrivano in un crescendo di emozione. È Poesia come la vita che scorre attraverso il suo finire e riconosce in questo tutto l’amore che si poteva dare / dire e invece si è taciuto per pudore o altro “Nessuno può strapparci / quello che abbiamo vissuto / per amore e per scelta”.

Mi trafigge la nostalgia
mentre il ricordo mi porta
l’onda sonora della fisarmonica,
la canzone che suonavi
per il bambino con la febbre alta
addormentato nella roulotte
come in una tiepida tana.


(Carla De Angelis)



Transiti: taccuino delle stagioni
di Silvana Sonno (Perugia)


Silvana Sonno ha vissuto a lungo a Torino dove si è occupata di educazione degli adulti nei Corsi per Lavoratori (“150 ore”) e per conto della Regione Piemonte. Attualmente vive a Perugia dove si è formata come Counsellor in Gestalt Psicosociale. Ha insegnato per molti anni materie letterarie negli Istituti di istruzione superiore e è socia fondatrice dell’associazione onlus Rete delle donne AntiViolenza, per la quale si è occupata a lungo di politiche di genere e formazione. Dal 2011 guida gruppi di lettura presso biblioteche del territorio, centrati su percorsi che attraversano la letteratura femminile contemporanea. La sua ricerca, nel campo della scrittura, è volta a indagare percorsi femminili restituiti attraverso scelte linguistiche e simboliche inclusive di una prospettiva di genere. Ha scritto opere di narrativa, poesia e saggistica che affrontano da diversi punti di vista e con diversi stilemi le problematiche di genere. Per quanto riguarda la poesia ha pubblicato otto raccolte di testi che spaziano dagli Haiku ai Landai alla poesia “tradizionale” ai versi satirici in dialetto, ricevendo premi e menzioni.

«La raccolta dispiega, nel suo farsi, gradevoli bozzetti pittorici che si abbeverano alla fonte, sempre ricca di ispirazioni e suggestioni, della natura. Nel viaggio tra i versi si evidenzia il legame speciale tra una interiorità ricca e fattiva e il mondo intorno. In quel variare vibrato e nelle descrizioni delle cicliche trasmutazioni stagionali, si inseriscono e si alternano riflessioni, domande e considerazioni riguardanti l’essere e lo stare come ad esempio: “questo avvicendarsi mi oltrepassa? / La mia presa sul mondo è una chimera?” (da Stagioni). Un certo numero di haiku dall’accento intimo, raccolto, punteggiano qua e là la silloge impreziosendo il tutto.» (Donatella Nardin)

«La natura cammina tra i versi, le liriche del poeta che attinge a colori, profumi delle stagioni e della sua territorialità, non solo geografica, ma anche interiore. Un percorso pieno di cromie, sensazioni, vissuto ed emozione.» (Mattia Cattaneo)

«Sono rimasta piacevolmente colpita dalla semplicità e dalla sapienza delle parole che compongono i versi di questa silloge. E’ stato un percorso lieve, piacevole “Allo scemar del lume della sera/avanza la Brigata Primavera”. Si alternano versi brevi e versi lunghi, componimenti in Haiku. È una lettura piacevole, dotta, non trascura nulla della natura, arriviamo così anche al mare ”Lui il mare, clessidra vigile del mondo”.» (Carla De Angelis)


III class.

Beatitudini
di Guglielmo Aprile (Napoli)


Guglielmo Aprile è nato a Napoli nel 1978. Vive ad Ischia. Ha pubblicato alcune raccolte di poesia, tra le quali: Il dio che vaga col vento (Puntoacapo Editrice 2008), Nessun mattino sarà mai l’ultimo (Zone 2008), L’assedio di Famagosta (Lietocolle 2015); Il talento dell’equilibrista (Ladolfi 2018); Il giardiniere cieco (Transeuropa 2019); Falò di carnevale (Fara, I classificata al concorso Narrapoetando 2021); Il sentiero del polline (Kanaga, I classificata al premio Arcore 2021); Thanatophobia (Progetto Cultura, I classificata al premio Mangiaparole 2021), Appunti Eoloiani (Fara 2024, II al Faraexcelsior).Ha collaborato con alcune riviste con studi su D’Annunzio, Luzi, Boccaccio e Marino, oltre che sulla poesia del Novecento.

«La silloge, in un crescendo armonico e sostenuto, trae linfa e nutrimento da immagini vivissime e incalzanti che avvolgono e coinvolgono il lettore trasportandolo in una dimensione altra. Certi rimandi interni ai versi, andando oltre i meri confini spazio-temporali, ne dilatano il senso e alcuni spunti teologici e spirituali, come ad esempio “un Dio diffuso nell’aria” (da Sitar indiano) procurano una sorta di vertigine da cui prorompe quel sacro che, ad altissime profondità, eleva il dire e la parola. L’ intima compenetrazione con la natura e il cosmo, nei loro elementi più vivi, pervade la raccolta sottolineando l’umana partecipazione dell’essere al tutto e la incessante ricerca di senso all’irrisolto enigma del nostro stare al mondo. L’uso sapiente degli endecasillabi aggiunge musicalità e ritmo ai testi conferendo all’insieme una notevole ed efficace gradazione emotiva.» (Donatella Nardin)

«Due versi di questa raccolta dicono: È l’uomo un rimpicciolito universo/ e l’universo un uomo macroscopico e sono la confessione di come quest’opera procede dritta su un sentiero di grande respiro. Ogni parola, ogni scelta lessicale unisce l’uomo al divino, scorge nel creato incastri profondi e misteri che sorreggono il tutto. È molto bello procedere nei ragionamenti sugli elementi e sull’io, che si fondono come all’inizio della creazione. Il risultato è confortante, pieno, luminoso.» (Anna Ruotolo)


Opere votate

Bagliori
di Antonella Giacon (Perugia)


Antonella Giacon è nata a Padova e risiede a Perugia. È formatrice in scrittura creativa e didattica della poesia nella scuola. Tiene corsi di scrittura creativa con gruppi di bambini, adolescenti e adulti. Nel 1994 ha pubblicato il libro di versi Sottopressione. Varie sue poesie in dialetto veneto sono state pubblicate su riviste, tra le quali Tratti e Diverse Lingue. Nel 2001 è uscita la silloge Pegno d’amore, Edizioni Corsare, Perugia. Con Effatà di Torino nel 2005 ha pubblicato in collaborazione con Elisabetta Forghieri Piccoli alberi, piccole albere, un percorso integrato di scrittura creativa e danzamovimentoterapia. Testi narrativi: Qualcosa di speciale (prima selezione al Premio Strega Ragazzi 2017), Quattro giorni (III classificato al Premio Fulgineamente 2021) e Curare le pietre (2024), tutti usciti con Edizioni Corsare. Nel 2024 l’editore Alieno ha pubblicato il suo racconto Tutto è cominciato con le calze, rappresentato a teatro con la regia di Carla Gariazzo.

«Lo sguardo poetante di questa raccolta si posa sui piccoli oggetti, sui particolari della realtà che spesso diamo per scontati, per rivelarne tutto il loro splendore. Attraverso un intero anno di osservazione attenta, l’autore ci aiuta a soffermarci davanti a ciò che accade, a prenderne atto con stupore, a non farci logorare dalla fretta. Riesce così a raccontare con immagini originali e profonde la bellezza del quotidiano. Porta sul palco della pagina i movimenti nascosti della vita, i personaggi secondari, le comparse che rischiano di confondersi sullo sfondo dei giorni sempre uguali, dando loro un ruolo primario. Il verso è mite, delicato, non prepotente. Non vuole imporre una visione egoistica del mondo, ma si fa compagno del lettore per riscoprire insieme le meraviglie nascoste che ci circondano.» (Matteo Pasqualone)

«Istantanee, cartoline, sono poesie rapide e fulgide insieme, un faro puntato su un pezzo di vita, un angolo di asfalto, un silenzio che riempie l’aria. Bella la scelta della brevità che coglie l’essenziale, in una costruzione dalla veste semplice ma dall’intento molto più complesso.» (Anna Ruotolo)


Beati gli indivisi
di Andrea Parato (Riccione)


Andrea Parato (Rimini 1979) lavora come funzionario al Comune di Rimini. Appassionato di comunicazione in tutte le sue sfaccettature – dai cultural media studies, alla poesia, alla semiotica, all’arte, alla musica – si è occupato di segreteria di direzione, consulenza direzionale, interventi formativi in ambito comportamentale e manageriale. Inserito in vari volumi fariani, ha pubblicato Imminenti stati di necessità (votata al Faraexcelsior 2018).

«Un verso maturo e riflessivo abita questa raccolta. Facendo dell’esperienza la fonte primaria del suo poetare, l’autore ci accompagna in un viaggio esistenziale che tocca la carne e la polvere della quotidianità, scorgendo dentro ogni sfaccettatura un afflato verso un qualcosa che sta oltre. Come il titolo ricorda, è un desiderio dell’umano attraversare la vita senza ferite o incrinature; ma tutto ciò è impossibile. Siamo tutti abitati da una fallibilità congenita, che ci porta a esperire la divisibilità del nostro essere. Non resta altro da fare che accettare questa condizione e continuare a camminare con in cuore l’obiettivo di ritrovare la strada / verso la cima, il senso di sentirsi chiamato.» (Matteo Pasqualone)

«La narrazione in versi del poeta ci conduce per mano negli angoli più nascosti del proprio Io, del proprio cuore: il percorso esperienziale tocca punte molto profonde della propria memoria, della propria coscienza.» (Mattia Cattaneo)




IN VITA CON I MORTI
di Flavio Vacchetta (Bene Vagienna, CN)


Flavio Vacchetta (Vachis) vive nel basso Piemonte al confine con le Langhe tra noccioleti e vigneti di proprietà. Ha pubblicato diverse raccolte poetiche: Silente meridiana - Universo vagabondo (Lorenzo editore Torino) Altra metà (Nero su bianco editore Cuneo). Con puntoacapo ha pubblicato: Akeldamà (2009); La scala luminosa (2012), Katagrafé (2016) e La spianata del silenzio (2022). È incluso nelle antologie Poesia in Piemonte e Valle Aosta e Il fiore della poesia italiana entrambe pubblicate da puntoacapo. Durante il covid ha pubblicato Crucifige (ed.Genesi Torino) e Per aspera ad astra (ed. Il cielo stellato CN). Appassionato di astronomia collabora a riviste scientifiche e durante l’anno internazionale dell’astronomia 2009 ha prodotto il dvd Astropoesie. Ha fondato il Gruppo astrofili benesi in collaborazione con UAI-Unione Astrofili Italiani.

«La poesia che si fa laica preghiera e liturgia esistenziale, dove il poeta esorcizza il dolore che manifesta una mancanza, una profonda assenza. La metafora scorre tra i versi, incide dentro l’anima del lettore.» (Mattia Cattaneo)


STRADE
di Alessandro Burrone (Pechino)


Alessandro Burrone (1994) è cresciuto tra Torino e Cigliano (VC) e vive a Pechino. Ha collaborato con riviste e blog letterari, tra cui PangeaStudi CattoliciIl SussidiariofarapoesiaLa poesia e lo spirito. Con Fara ha pubblicato una raccolta di poesie, La sete, il sonno (2022) e il romanzo La promessa di vita nel tuo cuore (2023, vincitore del concorso Narrapoetando), Le mie mani non sanno (Fara 2024, I al Narrapoetando).

«Mi ha colpito la continuità prosodica e narratologica di qualcosa che pulsa dentro e che va letta tutta d’un fiato, perché così va letta! C’è possibile prospettiva di ribalta teatrale e performance d’Action Poetry nel testo di questo autore…; è un testo che riverbera con certa prosa poetica della beat generation: scrittura automatica e immediata…» (Ruven Latiàni)


Frammenti di una partita infinita
di Gianluca Chierici (Orio Litta, LO)


Gianluca Chierici è nato nel 1977 a Milano. Ha scritto e diretto i film L’ultimo compleanno di Venere, pubblicato in Sguardi inquieti (Barbieri 2003); La crudeltà dell’angelo (2004); Dannati (2005); La chiave dei grandi misteri (2006); Hystera, premio della giuria al Mystfest di Cattolica 2008); OR, BJEM (2009); PickUp (2010); Fiaba di Daina (2012); Holy Mary (2014). Ha pubblicato: Il libro del mattino (Acquaviva 2005); L’eterno ritorno (Sentieri Meridiani 2007 – Premio Castelpagano); La madre delle bambole (Tracce 2008 – Premio Fondazione Caripe); Il nome del confine (Joker 2009); La stirpe del mare (L’Arcolaio 2010); Hanno amore (Perdisa Pop 2010); Il grido sepolto (Ladolfi 2017); La storia di Layla e Yurkemi (Fara 2018 – Opera vincitrice Faraexcelsior); Devi ancora inventare Euridice (Oedipus 2019) e Inferno bianco (Fallone Editore 2020).

«Questa silloge inizia con “c’era una volta” perché la vita e l’amicizia sono passi sulla nostra strada che cambiano nel corso del cammino. C’erano una volta. L’oratorio, le caramelle rubate, il prete, mi fanno tornare indietro nel tempo. Ecco la magia della poesia, trasporta il lettore dentro una storia non sua, ma la vive come se lo fosse. Poesia come narrazione. Ogni verso è uno spiraglio sui sogni, sulle aspettative del domani, è la scoperta che in un giorno può accadere tutto, nel bene e nel male.» (Carla De Angelis)


RACCOLTE SEGNALATE

Le mani di Caino
di Gianpaolo Anderlini (Fiorano Modenese)


Gianpaolo Anderlini vive nel modenese. È redattore della rivista QOL (dialogo ebraico-cristiano). Con Fara ha pubblicato: Giobbe. Opera in versi (2018), Distopie (2020), Versi di/versi. Diario poetico ai tempi del coronavirus (2020), Variazioni (2021), Devarìm ’acherìm (Parole altre) (2022), Incontri (2022), Figli di Qohèlet (2023), In limine e Salmi (2024). Opere recenti: Io sono tuo, salvami! Commento al Salmo 119 (Chirico 2022), E come potevamo non cantare (Altrimedia 2023), Canto del ritorno (Lupi 2024), La lingua del santuario. Introduzione all’ebraico biblico in ventidue lezioni (2 voll. EDB 2024).

«Una iniziale rievocazione di eventi biblici suggella e suggerisce, nella tensione lirica, un ascolto intimo, partecipato. Successivamente, echi di un certo vissuto permeano il dettato con dettagli incisivi, tra il dentro e il fuori, a tratti davvero palpitanti nel dispiegarsi formale di endecasillabi ed enjambements.» (Donatella Nardin)


Controtempo (Nel vento di Kairos)


Valeria Raimondi Brescia, fonda nel 2014 l’associazione Movimento dal Sottosuolo per la diffusione di poesia contemporanea e internazionale. Collabora con il festival annuale italiano del progetto de La Palabra en el mundo (Cuba). Nel 2016 è tradotta in lingua albanese per un’antologia a tre voci con i poeti Beppe Costa e Jack Hirschman. Nel 2018 una decina di poesie sono presentate a San Paolo del Brasile. Nel 2011 pubblica la silloge Io No (Ex-io) rieditata nel 2023 con Puntoacapo; nel 2014 esce Debito il Tempo, opera vincitrice del Premio Eros e Kairos; nel 2021, con Fara, Il penultimo giorno. Nel 2019 cura La nostra classe sepolta. Cronache poetiche dai mondi del lavoro, opera collettiva sulla precarietà e sulle “stragi” nel mondo del lavoro. Tra marzo e giugno 2020 scrive articoli sulla pandemia per i blog Carmilla, Human Rights e per la rivista Micromega. Nel 2020 contribuisce all’applicazione della legge Bacchelli per il poeta italiano Beppe Costa.

«L’io poetante si affida alla parola e alle sue morbide e a volte dolenti intonazioni per far rivivere l’esperibile con vivacità espressiva e una certa pulsante affabilità. Alimenta l’ispirazione la complessità del tempo, che sia quello che scorre o l’istante supremo, che, nel loro trasfigurarsi, sollecitano il pensiero, i sensi e l’anima lasciando “un’impronta di rugiada sulla fronte”.» (Donatella Nardin)