domenica 25 febbraio 2024

“feti, nel grembo di una indecifrabile / matriosca.”

Mirella Vercelli, La solitudine del passo, peQuod 2023

Collana Portosepolto
a cura di Luca Pizzolitto
e Massimiliano Bardotti

recensione di AR


La poesia a p. 114 di questa silloge ci offre un modo provocante (scuotendoci dal quotidiano torpore spirituale distratto da impegni, preoccupazioni, responsabilità, frustrazioni) di calarci nella poetica di Mirella:

Vite, passi avanti
della storia quasi impercettibili

inizio e fine mille volte ripetuti
tra un solo inizio ed una sola fine

feti, nel grembo di una idecifrabile
matriosca.

Tutti viviamo momenti in cui “Facciamo ressa, nel collo di bottiglia / che sbocca nei domini del silenzio // il dolore la moneta in tasca” (p. 109), o ci troviamo “Come un cane sull’uscio di casa / [ad] aspettare che il tempo ritorni, / ma il tempo è randagio” (p. 103). Oppure ci sentiamo sperduti, soli a portare il peso della vita: “Nulla, come la buona notte / dell’addetto al casello / dà la misura esatta / del tuo fuori strada” (p. 74) e desideriamo che almeno chi ci ama si volti e “cucia uno sguardo la lacerazione / dei passi divisi, sui versanti opposti / di una porta a vetri” (p. 66). O ancora siamo testimoni di agonie e allora con Mirella ogni persona può gridare: “ma io sono viva, viva / ho fame e sete, ancora, e ogni stella / che cade è una sigaretta spenta / sopra il cuore” (p. 95) e constatare che “il sogno di eternità / che m’era casa crolla” (p. 49). Immagini forti, doloranti eppure cariche di speranza, fiduciose in un ascolto-abbraccio: “Aprimi le braccia / raccoglimi sulle tue ginocchia // come fossero del figlio il corpo livido / queste povere ossa, o Dolorosa.” (p. 82).

Il libro è costellato di splendide pennellate in rilievo, materiche, ricche di ombre, potenti. Il decadimento fisico (“e quanto fa più male / l’aspro / sulle gengive erose!”, p. 23), la perdita delle persone care, instaurano sì un canto lacerato (“Che fatica, dopo di te / trovarsi viva”, p. 38), ma anche una preghiera desiderante, imperativa che vuole (umilmente, perché esperta di vita vissuta che ha accolto “il necessario affondo dell’aratro”, p. 45) risposte (come ad esempio in Lidia 6 a p. 43): 

Si va serrando in fretta il buio
di un’altra sera. Di un altro giorno
ti allontani, mamma,
d’altri sospiri, d’altri nodi
in gola. Superi 
l’ultimo squarcio della luce

Io resto nelle ombre.

Anche se non ne riceviamo (di risposte) ed il dolore ci attanaglia e “Si impigliano nel secco del prato / nella siepe di rovi sillabe / di una preghiera che ha urgenza / di nascere, che non trova sorgente” (p. 73), forse è proprio in quella afonia che si può insinuare il senso di un cammino, un libro di vita che “pesa sul petto / come la montagna che passo dopo / passo si è scalata, o forse / non è stata che una pagina, / sempre la stessa, voltata / e voltata…” (p. 117).

In questa tensione tra fede e incredulità, dicibile e indicibile, ragione e mistero, peso e leggerezza, bellezza e caducità, abbracci ed abbandoni… si gioca il nostro stare al mondo che è parallelamente uno stare già Altrove.

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