recensione di Matteo Bonvecchi
Ci sono momenti in cui l’inatteso si rende palese, attimo di grazia d’una delicata riconoscenza. Così, proprio la vigilia di Natale – smisurata passione che si fa misura dell’umano nell’umano, di cui la bellezza sulla terra è appena riverbero – capita la sorpresa di poter leggere Ipotesi di misura di Francesca Bavosi (FaraEditore, silloge vincitrice al Faraexcelsior di quest’anno). Gran dono davvero quest’invito, quasi sussurrato, a riscoprire, a tornare a una misura che sia finalmente umana. Perché dissetano questi versi, limpidi d’una rara musicalità, e insieme pungolano, quale acqua di fonte sgorgano da una purezza che sa di origine e di promessa. L’io poetante ne è sempre pienamente coinvolto: “da quella caverna mi nascono / le parole, io le accudisco, / a poco a poco le ridico e così / la brulla creta si fa chiostro ombroso, / spalancato sguardo, ventre materno”. E costantemente coinvolti ci si trova anche da lettori: il ritmo fluente e pacato e il fulgore delle immagini conducono a un riconoscimento, continuo nel sapore delle occasioni tratteggiate, nei pensieri. L’epifania di una consonanza che di pagina in pagina si fa più intensa, che ferisce, risveglia l’anima sopita. Nel rumore sordo che sale dal fondo di quest’epoca, sempre tesa ad assorbire bulimicamente – senza misura – idoli di vita apparente, è prezioso quest’invito a fare un passo indietro rispetto al “nostro famelico / spalancarci gli uni sugli altri”; preda del mostro d’un presente che tutto divora, orfani di tradizione e d’attesa, occorrerà tornare a “mescolare / la memoria alla fiducia”, per iniziare, anche “da questi cocci scabri”, la ricostruzione, e cercare “un’altra eredità occidentale”. Forse sarà voce nel deserto, ma così, sicuro, non può continuare.
Nulla però che sappia, in Bavosi, di pedante ideologia, o semplicemente nostalgia o regressione. Si tratta piuttosto di grazia profusa in virtù di una risurrezione che comincia dal quotidiano, dallo stare insieme e “guardare lontano”, perché “forse domani i rottami a terra saranno / sassi bianchi per tornare a casa”. Non è timidezza, o rinchiudersi sprezzanti in roccaforti o torri d’avorio, ma “concentrazione / di vita, e sete, oh sì, sete perenne, / che non fa dormire, che addestra / all’attenzione, e cerca, cerca sempre”. È però, certo, resistenza. Resistenza spirituale, come resiste quella piccola chiesa romanica in mezzo alla rotatoria, come lo sguardo volto ancora a domandare al cielo stellato o al prato dei grilli che racchiude l’estate, come a preservare, a custodire il fuoco d’una saggezza antica, la dedizione al dovere, la responsabilità d’esistere, declinando sempre indignazione e pietà, imparando di continuo ad adattarsi – senza mai poterlo districare – al groviglio delle cose. Come la misura sobria e dolce dei versi dedicati alla famiglia, o al dolore che può essere trasfigurato in “cerchi / nell’acqua, onde di vita che cresce” e l’aver fatto pace col proprio passato e saper dosare, dentro, il lievito del domani.
Scriveva Turoldo che “poesia / è rifare il mondo, dopo / il discorso devastatore / del mercadante”. Ecco, quella di Bavosi è parola discreta e decisa, rivelatrice del senso drammatico e gioioso del vivere, che dice con passione l’impossibile possibilità di proseguire, di non rassegnarsi alla desolazione. Già: sempre alla ricerca irrinunciabile di una lingua nuova per “ridire / da capo tutti i mattini del mondo” così da “gli uomini sentire più umani”, lasciare la misura di narciso per abbracciare quella della persona-relazione.
Una lettura che deposita tempo, silenzio e voce, in un crescendo di gratitudine che, intatta, pervade.
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