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Francesco Terracciano
Ipotesi di luce
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Tu lo sapevi che di tanta luce
resta soltanto l’abbaglio, sul ferro
delle panchine. Per questo dicevi
di farci avanti, di accostare il viso
a quelle griglie. Il solito supplizio
che sapevamo -noi i soli a tornare -
doveva compiersi la sera, quando
ognuno era già a casa o nel suo letto.
Dopo, un leggero rovescio di pioggia.
Commento.
Una richiesta lieve e dura; una semiferita che s’apre a intermittenza; un vano, impercorribile luogo di infinibile attesa e di mancate (o taciute) risposte. Un teatro di assilli silenziosi che agisce e parla nelle strettoie di uno spazio numinoso e inquieto, onirico e sospeso; e ovunque attraversato, con mistero, da minimi segnali che pungono domande senza nessuna pace mai: segni o barlumi di un’ansia che si declina nella mesta evocazione di una ipotesi di luce che sempre chiede una via di uscita; o un’ultima ricucitura; o l’aurora di una dolce risoluzione. Ma di tutto questo smarrito e cieco respirare – e di tutto il costante, lacrimoso interrogare – resta appena il brandello o il lacerto di una presenza sùbito affiorata e tanto presto rimossa, o abrasa, o fuggita via; e, anche, il rovello di un mancato inizio, l’affanno precipitato nel «solito supplizio», tutto e per sempre dolentemente privo di requie o di scioglimento o di liberazione.
Versi, dunque, che dicono l’assillo di un’agra e tagliente aspettazione che nulla risarcisce e nulla, finalmente, ricompone: Francesco Terracciano (1967) disegna, con questo suo prezioso inedito, una preghiera tanto malinconiosa, quanto densa e concentrata; e lo fa quasi cantando, come fosse un amante che, travolto dall’eco dei propri acuti e incessabili lamenti, perda infine la memoria di sé stesso, quasi stordito dalla malìa profonda della propria continuata tristizia; e il duolo e l’attesa e il prevedere e lo sperare cadono o si cancellano o ritornano nel limbo del mai nato (o dell’invisibile o dell’inesprimibile) con la visione impreveduta dell’erosivo, finale «rovescio di pioggia» che ripulisce ed estingue, per intero, lo struggente combattimento interno che agita e commuove, con ostinata cura, la mente dolorosa del poeta.
In alto, un disegno (1954) di Giacomo Manzù.