Fara Editore e i giurati del concorso Faraexcelsior sezione Poesia (Alessandro Salvi, Anna Ruotolo, Annalisa Ciampalini, Giuseppe Carracchia, Matteo Bonvecchi, Riccardo Deiana), ringraziando tutti partecipanti che si sono messi umilmente in gioco, sono lieti di proclamare i vincitori dell’edizione 2019.
Ecco la classifica e i giudizi di merito della giuria che ha svolto il proprio compito con grande attenzione, competenza ed entusiasmo.
Complimenti ai vincitori e agli autori che hanno lasciato un segno nelle anime dei giurati!
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Ecco la classifica e i giudizi di merito della giuria che ha svolto il proprio compito con grande attenzione, competenza ed entusiasmo.
Complimenti ai vincitori e agli autori che hanno lasciato un segno nelle anime dei giurati!
Per i vincitori della sezione Narrativa/saggio v. narrabilando
Vincitori con pubblicazione premio gratuita
1. class.
di Francesco Filia (Napoli)
Francesco Filia vive a Napoli, dov’è
nato nel 1973. Insegna filosofia e storia in un liceo cittadino. Si interessa prevalentemente
di filosofia, poesia e critica letteraria. Sue poesie e note critiche sono presenti
in numerose riviste e antologie. Ha pubblicato i poemi Il margine di una città (Il Laboratorio, 2008); La neve (Fara 2012), vincitore e finalista di diversi premi nazionali;
La zona rossa (Il Laboratorio 2015, con prefazione
di Aldo Masullo); la plaquette L’inizio rimasto (Il laboratorio 2017) e la raccolta Parole per la resa (CartaCanta 2017). È redattore di Poetarumsilva.
L’ora
stabilita
… quando correre non
sarà questo fuggire ma
restare
in sospensione
tra un passo e la sua
impronta tra il respiro e un
selciato spoglio di pietre
e cielo.
+++
L’ordine delle strade e dei visi, è
questo
che ci farà impazzire: come riconoscere
la regola degli elementi, la logica
di un gesto
di un assioma calato come mannaia
su pensieri divenuti passi sospesi
eco dell’asfalto. Ecco i miei occhi
sbarrati nel vuoto, spalle al muro.
+++
Indosserai
il rovescio della tua pelle
sarai
il fil di ferro che stringe
lo spasmo del respiro
ai muscoli tesi
in questa
infinitesima
frazione di gloria.
+++
lo spazio del nostro invocare
raccogliendo
cocci e angoli di strada
inciampando in una colpa
di orme sperdute, arrancando
fin dove una gamba ritorna
cancrena, dove
una lingua balbettando
soffoca, strema.
+++
Nel tendersi
del giorno
fino al suo spasimo
non c’è che un battito
di ciglia e il muto
sgomento che non conosce
il suo inizio.
+++
Saremo
nel tremore della nostra nudità
in quest’alba senza colore
nel punto cieco
al fondo
di un orizzonte di catrame
e bagliori.
+++
Seguendo il tracciato
di pulsazioni e stanze, il filo
di granelli nell’aria fin dove
si spezza, incrocio
un vuoto di mensole e rantoli
un’attesa
che dilapida
i suoi istanti.
«È
una raccolta tesa e agonica, in cui la complessità del tempo si frantuma, riducendosi
in atomistici e nella sostanza identici – qui l’infarto – istanti. Il messaggio
del poeta convoca in tribunale la vita di tutti: è tragico nel suo non censurare
il nulla, e nel suo spiattellarlo in faccia, risulta perfino violento, violento
come la verità che d’improvviso ci si presenta dinanzi.
L’ora stabilita invera la nostra
passeggera caducità, la nostra provvisorietà. Ma se caduchi e provvisori siamo biologicamente,
se questa è la nostra più caratterizzante condizione, sorgono subito, tra i mille,
due problemi: sebbene di passaggio, resterà almeno un segno di noi in questo mondo
e in questo lato della storia? E poi: la consapevolezza della nostra umana volatilità,
ci garantisce una continuazione, nelle forme che si vuole, al di là delle ossa,
della carne e delle unghie? In questo senso, L’ora stabilita valorizza quasi esclusivamente gli arresti in cui tali
domande emergono, più che proporre risposte o soluzioni, girando su sé stessa come
una manovella che incanta e cigola di tragedia. È in queste coordinate che sta la
sua carta d’identità, che va di pari passo all’esito: provocare accensioni angosciose,
far crollare la terra sotto ai piedi, e tra quelle stesse domande rovistare per
rovistare, sospendendo il bisogno chimico della salvezza.
Tra
la corsa, gli spasmi, i rantoli, il catrame, i pendii e gli spazi minuscoli ricavati
dal perimetro di un viso (figura dal valore multiplo: di drammatica accettazione
e di parallela claustrofobia), L’ora stabilita
fa mancare l’aria, fino a simulare una strozzatura soffocante, come quando svela
che il “filo spinato” riguarda “questa” vita; o come quando insiste su metafore
silenzianti e dolorose come «labbro inchiodato», o sul balbettio: velenoso ma unico
modo del dire. È disarmante e tragica questa ora, perché è l’ora in cui
ogni senso è percepito come plagiato e illusorio, perché si proietta solo “nel punto
cieco / al fondo”: “Dicono: ‘non troverai / niente / alla fine’”. Le proiezioni
di fuga sono rare, nella raccolta, e rarissime le prospettive, proprio perché la
concentrazione e lo sforzo sono sul momento che squarcia e riduce, come se all’improvviso
ci si guardasse da ere geologiche di distanza, con un’oggettività che quasi spaventa:
si scopre che non solo il corpo è microbo, ma l’intera nostra storia, e forse, ancora
più alla radice, la nostra epoca tutta. Il risultato è esaltante, ed è da spiare
nei versi-mosche-bianche: che forse l’insistenza puntiforme, se così ammala, è il
metodo sbagliato per un’indagine esistenziale? Anche l’atto dello scavare su cui
ruota la poesia Il fronte è orientato
sul qui e ora: un presente di cumuli e
macerie che il poeta non aggira ma scava verticalmente, e scava fino a nuova vita,
a un altro e più vergine qui. A nuova
vita.
Il
buio è lo sguardo di questo poeta randagio, minatore dalle pupille dilatate, indifeso
nella troppa luce del giorno; e poeta è colui che unisce «il filo, spezzato» degli
oggetti «a quel che non muore», e che coglie quel che ancora non conosciamo, come, per esempio, l’unica giustizia
che conta: “rimanere / nel bivio / di questo giorno”.
E
poi, quando l’aria arriva dopo queste strofe che stringono come mani assassine al
collo; dopo “questo zero”, dell’aria che arriva se ne fa una boccata, senza retorica,
di vita: anche il lettore si riprende dall’apnea, all’inizio ingoiando voracemente,
come in crisi d’astinenza, più ossigeno che riesce, poi, riequilibratosi, si calma,
si ritaglia un respiro di pace, proprio come dopo la risalita da un tuffo profondo.
La lezione, forse, è questa: è fondamentale certo sostare e lasciarsi perfino imprimere
dagli istanti cruciali, e patteggiare e specchiarsi in essi misurando la nostra
evanescenza, la possibilità di non avere “un conforto di un inizio”; ma, di rovescio,
l’istante, quell’ora in cui “caso e destino”
s’incontrano “in un dettaglio fuori posto”, che pare tramarsi intimamente tra i
versi di questa raccolta, non è tutto. Perché, nonostante i dubbi atroci e le cupe
prese d’atto; e nonostante il commercio con i “nomi domestici di / un nulla”: “Un
ultimo, / forse, invisibile / riannodarsi», non solo è sperato, ma è anche possibile”.» (Riccardo Deiana)
«La raccolta
si presenta omogenea, formata da componimenti mai banali, misurati e scritti con
un lessico essenziale che sa creare profondità di significato. Un’occasione per
riflettere sulla particolarità del fare poetico. Si tratta di una lettura bella
e scorrevole in cui il poeta ci pone di fronte a pensieri e immagini, spesso contenenti
elementi paesaggistici, affinché possiamo dare spazio alla nostra anima secondo
direzioni non scontate o prestabilite.» (Annalisa Ciampalini)
«È una poesia cerebrale quella de L’ora stabilita, fatta di pensiero
e di volute, calata nell’intuizione del mondo e del tempo, persa negli interstizi
del senso che scompone e riappare, come in un sogno lungo e denso. Ogni avvenimento
è fratturato fino alla dissoluzione del senso primigenio. E negli inciampi, nell’imperfezione,
nella difficoltà del percorso si trova, in fondo, la poesia.» (Anna Ruotolo)
«Riuscitissime
allitterazioni, meravigliose metafore, L’ora stabilita è una profonda meditazione
sulla vita tra speranza e disillusione, bellezza e dolore. Percezione d’un senso
più grande e amara constatazione dell’ultimativa insufficienza del tutto, questa
silloge ha il coraggio di riaprire i perduti varchi per l’interrogazione, di tornare
a sondare l’ignoto. E questa è poesia, facoltà misteriosa e necessaria di essere
nelle cose per trasgredirle: “… l’ora / dei piedi interrati / e dell’azzurro del
cielo”. L’ora decisiva che interpella la libertà all’abbandono, a un morire come
è sempre un po’ la creazione poetica: si muore nell’es-posizione del verso, come
affidamento, consegna di sé all’opera che però viene da altrove. E questa stessa
morte è sempre parturitio novae vitae.
Poesia e morte, là dove però “senza indulgenze e fughe”, in ultima analisi, la poesia
resta la ribellione più alta alla morte, al nostro consenso a non vivere da vivi.
Perché se non si rinuncia a cantare vuol dire che anche il “niente” è l’inizio d’una,
per quanto disperata, benedizione. Potrà allora albeggiare la speranza, sempre inquieta,
di riappropriarci del senso per “un ultimo, / forse, invisibile / riannodarsi” del
caos dei giorni.» (Matteo Bonvecchi)
2. class.
di Vera Lúcia deOliveria (Perugia)
Vera Lúcia de Oliveira, nata in Brasile, vive e lavora a Perugia. È poeta, saggista e insegna Letteratura
Portoghese e Brasiliana all’Università degli Studi di Perugia. Scrive sia in portoghese
che in italiano ed è presente in riviste e antologie poetiche pubblicate in Brasile,
Italia, Portogallo, Spagna, Stati Uniti, Inghilterra, Francia, Romania e Germania.
Ha vinto numerosi premi in Italia e all’estero. Con Fara ha ultimamente pubblicato Ditelo a mia madre (2017). Per notizie sulle sue opere e i riconoscimenti ricevuti: www.veraluciadeoliveira.it
Ero in un caldo paese
Ero in un caldo paese
“Un sogno di
bellezza un dì mi prese. Ero
fra calda gente in un caldo paese.” (Sandro Penna)
A Ilde Arcelli (in
memoria)
c’è una ballerina
in me
pronta a occupare
il mio corpo
per vederla bisogna
andare a fondo
infilare la mano
con delicatezza
nella pancia di Dio
se è stato per il
colore del vento
che sono nata, per
il rumore delle
foglie accese di
luce, l’aria che si
muove fra i panni
bianchi sui fili
la sera che sembra
non scorrere
il midollo del
tempo, questa vita
in estasi, questo
corpo ardente
questo sguardo lucido
sul nucleo di tutto
l’amore è vissuto
in me
con tutto il suo
fiore di velluto
un’estate in cui
ero stata rapita
dal dio della
bellezza del mondo
e ho avuto parole
come un panetto di
farina
da impastare
imburrare
mettere nel forno
per i giorni
peggiori
si era circondata
di verde
anche la finestra
aveva fatto
ingrandire
per avere
l’impressione
di avere radici
salde nella terra
guardavo il cielo
vivo di luce
luce sui campi sui
muri
diamanti nelle
pozzanghere
lampi sui tetti che
piano
foravano la sera
abituare la lingua
abitarla nel folto
della radice
più intima
valeva la pena
in quella mattina
il bianco
spalancato
sulle finestre di
giugno
e tutto quel colore
acceso in ogni cosa
perché non avrei
dovuto
volerlo perché non avrei
dovuto amarlo?
sdraiata nel buio e
nel freddo
sentiva dall’altra
parte del mondo
la voce del figlio
distante che dentro
la notte veniva a
svegliarla mamma
ti va di parlare
con me oggi?
«Un grande canto universale
abita un “paese caldo”, un luogo quasi mai perfettamente fisico ma sottilmente interiore,
mistero e compimento dell'ardore dello scrivere, del bisogno di una massima comunicazione,
di un dialogo ininterrotto con questo mondo e tutti i mondi possibili. L’equilibrio
passa per la parola e la parola è la casa di tutti. Una casa fuori nel vento e nella
storia, piena di armonia e incanti. Questa poesia spinge la ricerca verso terre
vergini grazie ad accostamenti eleganti e pieni di gioia creativa.» (Anna Ruotolo)
«Nel
solco delle grandi presenze perugine, in una forma simbolica e colloquiale a un
tempo, vibra qui di commozione la memoria vissuta di due astri poetici dello stesso
capoluogo umbro. “Forse la vita si vede meglio nel buio” perché, certo, il dolore
della malattia, la memoria del dolore è “minotauro” che risale il labirinto per
venirti a cercare, ma “è possibile abitare la notte / se porti un filare di sillabe”
a fare luce. Una poesia che carezza e accende i sensi: odori, colori, contatti,
musiche dolci s’accordano in profonda armonia. E si sente che la realtà viene prima
della poesia, perché se “non si fa poesia sulla morte”, è però vero che “se l’amore
/ rimane anche la morte / vissuta da viva / valeva la pena”. Ci si nutre di questa
sapienza, come cibo preparato in casa per amici. Ne risulta un senso d’autentica
gratitudine, perché pure questi brevi componimenti restano come quei panetti imburrati
“da mettere in forno per i giorni peggiori”.» (Matteo Bonvecchi)
«La silloge
si contraddistingue per un’attenzione rivolta alle piccole cose, agli accadimenti
che avvengono timidamente e all’importanza che essi possono assumere quando si osserva
la vita e il fluire degli eventi seguendo una particolare concezione. I versi testimoniano
uno sguardo vitale sul mondo e la sapienza di saper individuare preziosi angoli
di vita. La gentilezza compare anche nello stile e ben si addice al significato
dell’opera.» (Annalisa Ciampalini)
Altre opere
votate
Piccole
storie senza storia
di Rosanna Gambarara (Roma)
Rosanna Gambarara è nata a Urbino e a Urbino si è laureata in Lettere classiche ed ha insegnato, prima di trasferirsi a Roma, dove ha continuato a insegnare. Urbin è stata pubblicata
nella cartella d’arte “Appunti”, Dolcini per Logli (Stamperia d’Arte G.F., Urbino, 2000). Sue poesie compaiono
su “Il parlar franco” n. 4, 2004. Nel 2010 e nel 2017 è stata finalista al Premio
Ischitella – Pietro Giannone e due poesie sono state pubblicate su «Periferie»,
2010, anno XV n. 54-55, una su «Periferie», 2017 anno XXI n. 83. Alcune compaiono
su Poetarum Silva, Versante Ripido, «Carte
Sensibili», su «Navigare» n. 9 (Pagine 2016). È presente nell’antologiaPoeti
neodialettali marchigiani, Versante 2018; in Marche, omaggio in versi,
Bertoni 2018; ne Il soffio delle parole, Versante 2018; in Novanta9,
IAED 2018. Ha pubblicato Hysteron Proteron, Pagine 2016; Dedlà, Bertoni 2019. Ama Schubert e non solo. Canta come contralto nel coro Jubilate et exsultate, diretto dal maestro Giampiero Antonicelli, e nel coro Cantar gli affetti, diretto dal maestro Arman Azemon.
«Per
una magnifica operazione, le parole del vecchio padre – quale àugure d’un tempo
sospeso – riaffiorano dal fondo della memoria e fanno rivivere storie, persone,
le loro sensazioni, nel sangue di chi le ha ascoltate e raccolte e tradotte in forma
lirica, trasfigurate, ma dando l’impressione di conservare persino il parlato in
vernacolo, con tutta la potenza dell’oralità.
Davvero, come recita il proverbio antico, val più un vecchio nel canto del
fuoco che un giovane nel campo.
Stupefacente
la facilità, la fluidità musicale con cui sgorga il verso, il bel gioco della rima
e delle assonanze, la padronanza linguistica, insieme nella migliore tradizione
dei poeti d’Urbino (chiara l’impronta di Piersanti) e nell’innovazione degli inserti
neodialettali. E proprio dalla campagna sotto Urbino risalgono queste storie, coi
toponimi precisi, i riti, i colori nelle stagioni, le coltivazioni nel paesaggio,
col preciso nome degli oggetti in uso nella prima metà del Novecento. Un passato
che va salvato, non per nostalgia ma perché ogni volta capace di narrare nelle radici
l’identità, d’indicare il futuro alle questioni senza tempo, e non c’è forse via
migliore della poesia per farlo, sempre sulla soglia del trapasso nel mito o nel
sogno. Dolcissime o terribili (un po’ alla Verga o Spoon River), storie semplici
di semplici persone (“saghe strane di briganti / e di gente senza nome senza gloria
/ buona o prepotente”), che nessuna storia ci avrebbe altrimenti traghettato, ma
che hanno il dono d’esser state, e allora riecheggiano (“questo moto del cuore che
stasera / ne intercetta / l’eco nascosta”) e perciò permangono. (Matteo Bonvecchi)
«“Stasera / il silenzio buono degli
angoli / la penombra delle voci / conciliano un languore memoriale”. Questi versi
concludono la prima strofa della poesia introduttiva della raccolta. Versi decisivi,
perché dichiarano subito il contesto e le sue due principali implicazioni: il problema
di fondo, quello sociale; e, rinvangandola, una certa idea di poesia. Questo contesto
è la memoria. In che senso, ci si chiederà, la memoria dovrebbe rappresentare il
fulcro, anzi il problema e l’idea di poesia.
Leggendo Piccole storie senza storia ci si trova di fronte a, tematicamente,
episodi quotidiani e non esemplari; e formalmente a una scrittura anti-patetica
– che rasenta la cronaca – e a toni che spaziano dal leggendario, al popolare, fino
a salire all’epico per poi scendere nel comico, nel grottesco, nella canzonetta
di paese e nelle filastrocche. Il tutto tenuto insieme da una coerenza geometrica
e senza orpelli, indice di un narratore sensibile più al controllo dei dati che
non alla loro valutazione o svalutazione, verniciatura o imbrattatura. Un antecedente
nobilissimo, nel tema generale, per intendersi, a cui la raccolta sembra guardare,
è da individuare in Novecento di Bernardo
Bertolucci. La differenza, qui, è che pare non esserci taglio critico, né trama,
né partecipazione: manca, per l’appunto, la storia. E manca la morale; ma anche
la politica. Siamo in una condizione a-temporale, senza tempo, dove a prevalere
sono gli aneddoti e le novelle che si tramandano oralmente; il tutto senza lirismi.
Solo nei soprannomi affiorano barlumi epocali, e negli attrezzi dei tanti mestieri
citati, o nel lessico dialettale. Una scelta, questa anti-storica, che se altrove
è da giudicare come dannosa, qui sviluppa e si fa carico, credo, di una funzione:
che non è quella generica di intrattenere un pubblico, bensì di sondare la memoria
collettiva e contrastarne l’oblio. Ecco perché è il problema: il poeta anti-lirico
ha a cuore, parrebbe, le sorti della memoria dell’umanità umile e periferica, quella
solitamente esclusa dalle grandi enciclopedie e la più individualmente afona (d’essa
si parla di solito in termini impersonali; o, addirittura, si parla a suo nome).
Paradossalmente la postura anti-storica diventa qui l’unica possibile via per la
critica di un aspetto decisivo dell’epoca in cui viviamo, perché ne smaschera di
prepotenza l’impianto, che sebbene appaia innocuo, naturale e ben conciato, è in
realtà uno dei nostri più acerrimi nemici: la gestione della memoria e la sua esternalizzazione.
Da un lato abbiamo internet che conservando ogni cosa satura pericolosamente la
meccanica memoriale, attappando, o quantomeno limitando, tradizione, creatività
e azione; dall’altro, il costume di delegare alla tecnologica noi stessi e la nostra
storia, ci denuda e fa precipitare in un irredimibile solitudine e senso di abbandono.
Il fatto che oggi si possa conservare tutto, perché ce n’è la possibilità materiale,
non ha ricadute coesive, identitarie a livello sociale. Mentre nel passato (in un’epoca
dove l’impatto tecnologico-informatico era ridotto o prossimo allo zero) avveniva
il contrario: la memoria rafforzava l’inconscio collettivo e lo traghettava nei
decenni, nei secoli. Una raccolta di poesie come Piccole storie senza storia non avrebbe granché senso se non gioco-forzasse
proprio con un sottofondo diagnostico come questo.
Affiora anche un’idea
di poesia, si diceva all’inizio. È evidente: in questa sana mossa di retroguardia,
il poeta sceglie proprio la più antica tecnologia memoriale per i suoi personaggi
e le loro storie: i versi. I versi, che sono il modo più sicuro per imparare e fissare
i valori fondamentali e non trattabili della civiltà, come quello contenuto in Conversazione: “– El sa, dotor, la novità? / – Che novità, boh? / – Hann mess Ciani in prigion! / – Sé, el so… / chel papulon tacagn… / E lei cl’atra
la sa? / – No… / – Nisciun piagn… [–
La sa, dottore, la novità? / – Che novità,
boh? / – Hanno messo Ciani in prigione! / – Sì, la so… / quel contafrottole
taccagno... / E lei quell'altra la sa?
/ – No… / – Nessuno piange…”].» (Riccardo Deiana)
Carla De Angelis è nata e vive a Roma. Sue poesie e racconti sono presenti in riviste e antologie edite da Perrone, Estroverso, David & Matthaus, Limina Mentis, Delta3, Pagine, Aletti. Ha ricevuto vari premi e riconoscimenti. Nel 1995 il Presidente della Repubblica protempore le ha conferito l’onorificienza di Cavaliere. Con Fara ha pubblicato in poesia: Salutami il mare (2006), A dieci minuti da Urano(2010), I giorni e le strade (2014). Con Stefano Martello ha realizzato i saggi: Diversità apparenti (2007), Il resto (parziale) della storia (2008), Il valore dello scarto (2016). Suoi versi nelle antologie Il silenzio della poesia (2007), Poeti profeti? (2008), Chi scrive ha fede? (2013) e nelle antologie del Concorso “Come farfalle diventeremo immensità” (ultima Il coraggio del bene, 2017). Nel 2011 esce Mi vestirei di mare (Progetto Cultura). Ha ideato e cocurato le antologie Corviale cerca poeti per la Biblioteca “Renato Nicolini” di Roma con la quale collabora tutt’ora. Nel giugno 2017 ha pubblicato con Fara la pluripremiata raccolta Mi fido del mare.
«L’“amore sempre”: ripete con misura
il poeta senza l’insistenza del predicatore, e a calibrata e piacevole distanza.
In due sensi quel binomio elementare risuona felicemente: formale e morale. Da un
lato, il posizionamento strategico e parsimonioso lo toglie dai rischi implosivi
e inconsistenti tipici della monotonia melensa e di certe formule ripetitive – una
parsimonia dosata così bene che quel mantrico ritorno dell’amore sempre, pur senza occupare che sporadicamente la scena, pare costituirne
il vero muro portante. Dall’altro, per un motivo morale: l’avverbio sempre sembra avere un significato non solo
immediatamente temporale, ma anche – quasi fosse la sua ombra inevitabile – avversativo,
suggerendo, con un tono delicato e oserei dire universalmente amichevole, il valore
strutturale e di impareggiabile sostegno dell’amore: dell’amore, tradotto con la
logica avversativa, nonostante tutto.
Ma l’amore non è certo banalmente
l’àncora da gettare in tempi truci; né il taxi in servizio h24, o la poltrona ergonomica
su cui svaccarsi la sera. Se è vero che anche nella sua fine esso rappresenta comunque
il fondamento, la speranza e la risposta, questo non vuol dire che è una cosa quadrata a nostra commerciale e facile
disposizione: prima di poterlo considerare fondamento, esso va fondato; non è da
nessuna parte perché non ha recapiti; e proprio come per la poesia, per la lettura
di uno spartito, o per la composizione di un accordo sulla tastiera della chitarra,
per raggiungere tale scopo occorre riflessione, pazienza e lotta con la materia
bruta e data: “devo scivolare nelle fessure e tacere, / poi levigare e amare”. La
chiave etica della raccolta è tutta infusa in questo poi.
Il poeta di Fra le dita una favilla sembra sole è in continua e sincera ricerca
nel suo «andare senza fine», con le sue poesie ‘vista-vita’, ancora capace della
meraviglia del quotidiano; questo umile poeta, che con i suoi versi ambisce alla
terra più che a volare in un cielo laureato, si mostra ancora incerto sul tono e
il ritmo da adottare, ma non ignora la bussola che sente, e luminosamente si rivolge
in direzione del canto, pronto ad affinarsi, a lavorare, e per nulla spaventato
dall’esercizio, anzi disposto al sacrificio e alla fatica: “Provo ancora, mi fanno
male le dita”; “Il tronco no, necessita che proceda lentamente / che chiuda nel
cassetto il desiderio / di arrivare a godere di ogni intaglio”. È in questo atteggiamento
endemico di apertura che egli, nonostante il sangue umano versato in mare, nonostante
la malattia che costringe all’uso di arti artificiali, nonostante gli “amici che
se ne vanno” e la realtà che indifferente “procede per suo conto”; egli, nonostante
gli agguati della paura e il dolore patiti, i nodi che farraginano la mente, l’insonnia
e la “sirena che chiama al lavoro”, sa, egli, concedersi all’onda, al sole e contro
i pensieri che offuscano e non germogliano perfino al “gocciolare dell’acqua”, sa,
e si espone sempre, anzi nonostante tutto:
all’ “amore sempre”.» (Riccardo Deiana)
Le poesie
le scrivono tutti
di Andrea Biondi (Treia, MC)
«Pur
non senza ironia, il dubbio che rode l’autore de Le poesie le scrivono tutti è quello
stesso che insieme nutre sincero ogni poeta quando si pensa appena imbrattacarte,
scribacchino. Ma il titolo subito trapassa da una verità netta e disillusa (la banalità
effusiva di tanta produzione che, magari facendo leva sull’emozione facile, pretende
d’esser chiamata poesia) a una verità ben più profonda: l’autore è autenticamente
poeta almeno quanto lo sono quei tipi, amici che vivono ai margini, che si direbbero
“semplici”, cantastorie, suonatori, “catorci umani”, oppure i coloni, custodi inconsapevoli
e cultori d’una saggezza che proviene dal fondo dei secoli e delle campagne, veri
alter ego, “aggrappati a una poesia / per non morire / nella spazzatura del mondo”,
conservando il sentimento lieto del dono della vita, una spirituale devozione al
mistero di ciò che esiste. Funzione salvifica della poesia ed evangelica esaltazione
degli umili.
Un
lessico ricco, spesso ai limiti dell’inventiva, ribellandosi alla “triste industria”
dell’appiattente ri-produzione, intride questi versi d’una densità formidabile,
materica. Eppure resta che “la mia passione è lo spazio bianco”, la vastità inebriante
del miracolo d’una parola originale, che fa essere nel senso dell’offerta rivelatrice,
perciò interminabilmente parlante, senza mai essere parlata una volta per tutte.
Eco lontana del Verbo primigenio, che qui a tratti giustamente appare come “agnello”,
a tratti come “bel pastore”.» (Matteo Bonvecchi)
Felci e rovi - haiku dedicati
di Luciana Moretto (Oderzo, TV)
Luciana Moretto ha pubblicato sette libri di poesia con le Case Editrici Lietocolle e
La Vita Felice. Sua speciatità – mutuando il linguaggio dei cuochi stellati – la
Poesia Haiku, da qualche anno anche in lingua Inglese.
«L’opera è scritta
seguendo la regola formale dell’Haiku e rispettandone le intensioni. Si tratta di
una silloge omogenea che si rivolge soprattutto alle stagioni, al loro manifestarsi,
non vi è scissione tra il cosmo e l’interiorità della persona singola. I versi sono
ben riusciti e non è semplice all’interno di una forma poetica così breve. Il poeta,
attraverso questi versi, riesce a coinvolgere il lettore, a farlo sentire parte
integrante della natura e di un ciclo cosmico che assoggetta tutto quanto.» (Annalisa Ciampalini)
Poesie minuscole
di Colomba Di Pasquale (Recanati)
«A volte arrivare “al punto” delle cose costa
un taglio netto del superfluo oppure significa non dire più di una parola ma anche
non dirne meno di quanto sia necessario. In queste poesie minuscole il mondo è rigirato
come un guanto, le verità e le attese si mescolano. Crollano i paradigmi e il caso
impera. Ma anche la saggezza arriva e tende una mano. E resta fissa nella memoria,
anche in una sola parola.» (Anna Ruotolo)
La fatica dei cerchi perfetti a mantenersi comunque rotondi
di Gaetano Giuseppe Magro (Catania)
Gaetano Giuseppe Magro è Professore Ordinario di Anatomia Patologica presso la Facoltà
di Medicina e Chirurgia dell’Università di Catania. Esperienze letterarie: Il mare metafisico di Punta Corvo (romanzo, Manni Editore 2005); Fontana delle ore (poesie, A&B editrice 2001); Impermanenza (poesie, Edizioni Il Giornale di Scicli 2005); Le lumache
mediocri (poesie, LietoColle 2010); Il glomerulo di sale (silloge poetica in antologia, Fara 2010); Il batterio del tempo (silloge poetica in antologia) (Fara 2011), Formalina (romanzo, Fara 2013).
«Una raccolta
che ha numerosi riferimenti, sia mitologici che poetici, e scritta con forza espressiva.»
(Annalisa Ciampalini)
Segnalata
Dentro
la trasparenza di Maela Bertazzo (Marostica, VI)
Maria Maela Bertazzo è nata a Nove e risiede Marostica. Una vita passata tra i numeri. Poi un giorno, inaspettatamente, è iniziata
una meravigliosa avventura chiamata “scrittura”. Partecipa a concorsi letterari e ha ottenuto
vari riconoscimenti. Alcune
sue opere sono
inserite in antologie di racconti. Vapori e ciàcoe è risultato 3° classificato al Concorso letterario regionale di poesia
e prosa 2014 ad Abano Terme (PD); Il più straniero di tutti
ha ottenuto il 1° posto
al Premio letterario Virgilio Scapin 2018
a Breganze (VI). Come dice
spesso: “I numeri
non ti abbandonano, ma le parole ti permettono di andare oltre”.
«Attraverso
il viaggio introspettivo riaffiorano figure ancestrali, lemmi costanti scandiscono
il percorso che si snoda in tre fasi, tre giornate d’affresco (“sarà notte / e poi
ancora giorno”) che conferiscono estrema unitarietà a una vicenda che più volte
assume tonalità perfino mistiche. La tensione espressiva è tenuta costante tramite
un notevole andamento asindetico. Una melodia ritmica sortisce effetti di spaesamento,
di sbigottito sprofondamento: una discesa al fondo dell’anima, fino a scontare tutto
il dolore dell’amore perduto, e poi meravigliosa, una volta scovate “le parole dell’abbandono”,
la risalita, splendida nelle liete immagini della natura ricomposta e riscoperta,
nella raggiunta consapevolezza che “la luce non potrà illuminarti se non hai saputo
comprendere il buio”.» (Matteo Bonvecchi)
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