nota di lettura di Maria Borio
su Ditelo a mia madre di Vera Lúcia de
Oliveira

Questa raccolta è
soprattutto un luogo di coscienza, di indagine su come la coscienza umana possa
rapportarsi con il male. La riflessione civile viene staccata dalla cronaca e
introiettata dentro la vita interiore dei singoli o portata in una forma
sottile di escatologia. Ad ogni suo lettore questo libro chiede una riflessione
sul suo senso di responsabilità e di civiltà. Ciò si verifica attraverso alcune
caratteristiche chiave. Una di queste è la simbologia che contiene la parola
«madre». Con massima visibilità fin dal titolo, essa è il punto di riferimento
del messaggio collettivo che ha il libro e simboleggia l’invito a una
meditazione etica, tanto laica quanto spirituale. Per questo la simbologia
della «madre» genera una tensione alla trascendenza in una osmosi costante
dell’intimità degli affetti e una dimensione cosmica: come se tra la storia di
Regeni e le nostre individualità non possa più essere tracciata con certezza
una «nozione di confini» (p. 43). Anche il punto di vista letterario e
meta-letterario tendono a incrociarsi («ora il libro è il mio corpo», p. 53),
indicando proprio nella poesia la capacità di una conoscenza dei fatti del
mondo sensibile e intellegibile, a tal punto che i limiti dei fatti riescono
sempre ad essere trascesi in una rappresentazione potenzialmente universale.
Dalla
cronaca all’idea di coscienza civile, dal
dialogo figlio-madre a una riflessione sapienziale e cosmica, i
frammenti della raccolta si succedono in una dilatazione verticale. Ciò è
favorito in larga misura dallo stile che ha l’abilità di fondere insieme un
senso di leggerezza aerea e la nettezza di una pietra levigata, ricreando in
questo modo un equilibrio tra la vertigine metafisica e una spiritualità calata
in una attenta percezione sensibile. La scrittura tende alla sublimazione, per
sottrazione ed ellissi, come dicevo all’inizio. La sua forza è la brevitas, che si riscontra sia nelle
scelte stilistiche, come la sintassi, la retorica e il lessico lineari, svolti
con molteplici usi sintetici ed ellittici, puliti dalla punteggiatura ridotta
all’essenziale; sia nella metrica dai movimenti brevi e dal ritmo incalzante.
Lo stile è terso e asciutto, per questo dà l’idea di leggerezza aerea e
affilatezza minerale; così la metrica e il ritmo sono netti e incalzanti, in
una combinazione ossimorica tra la grazia volatile, come quella di leggeri foglietti,
e la decisione serrata, similmente a una pietra che graffia sopra un’altra
pietra. Viene da pensare a Ungaretti – cruciale per l’autrice nella sua
formazione e nel suo rapporto con la lingua italiana – e a Celan, come nota
Prisca Agustoni nella postfazione. Nel contatto tra volatilità e esattezza, tra
il foglio e la pietra, la dizione apre uno squarcio, proietta in un abisso: tra
il dramma della vicenda di cronaca (la modalità di monologo teatrale ne è
sintomatica) e un equilibrio di saggezza certosina (per cui il monologo si
trasforma alla fine quasi in una salmodia di versetti aforismatici). Dal
momento che questo libro è stato scritto in italiano, non in brasiliano con
successiva traduzione come molti altri lavori di Vera Lúcia, credo che anche la
transazione tra una lingua e l’altra caratterizzi la forza delle sue scelte
formali e della sua voce civile. Con stile diverso, nella poesia italiana di
oggi Anedda ha già saputo fare poesia civile in modo affine, ha trasceso la
cronaca in una riflessione rivolta alla coscienza del singolo individuo e a
quella collettiva: dall’io al coro (penso a Notti
di pace occidentale, a Dal balcone
del corpo). Come può una poesia lirica essere civile? Con questa domanda
possiamo chiudere Ditelo a mia madre,
con un invito a ripensare gli stereotipi e la funzione conoscitiva di un
linguaggio come la poesia che nella sua particolare articolazione e icasticità
ci dice sempre come gli eventi della storia e il breve frammento di una vita
possano essere portati al di là dei loro limiti, come i fatti possano diventare
spazio di coscienza.
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