nota di lettura di Maria Borio
su Ditelo a mia madre di Vera Lúcia de
Oliveira
Ditelo amia madre
di Vera Lúcia de Oliveira, edito da Fara Editore nel 2017, è un libro che
declina in modo particolare il genere della poesia civile, solitamente
associato a quella che potremmo definire un’addizione di elementi, svolta nella
forma di descrizione realistica che accumula particolari, ma anche nella
postura didascalica che insiste con una retorica esplicita sul rapporto tra
scrittura e messaggio etico. La poesia di Vera Lúcia, invece, ci porta nella
riflessione civile attraverso un processo di sottrazione, prevalentemente per
sintesi ed ellissi. Ditelo a mia madre
è una raccolta simile a un monologo in assolo, articolata in cinquantuno frammenti
numerati, come se ognuno di essi fosse una parte di un canto biblico frazionato
in sequenze di versetti salmodici, che combinano la meditazione lirica,
introspettiva, e uno sguardo che la trascende in una sequenza di aforismi dal
respiro universale. La scrittura mira all’equilibrio, rastrema la densità
caotica della storia e dell’esperienza. Per questo il soggetto monologante, che
si insinua tra le pagine come un’ombra, diventa una specie di consistenza
fantasmatica («sai la differenza tra un corpo e l’ombra?», p. 50) che riesce a
pervadere le coscienze di ognuno. A parlare è – può sembrare ad un primo
sguardo – il protagonista di una delle vicende di cronaca nera più critiche
degli ultimi anni, Giulio Regeni. La raccolta trae, certo, spunto dalla sua
vicenda, come segnala l’autrice in una nota conclusiva: ma per renderla
paradigmatica, per sottrarla alla brutalità caotica della cronaca. Il soggetto
può essere, quindi, il ragazzo ucciso che si rivolge come un angelo visitatore
alla madre, in una forma di dialogo funebre che quasi richiama certa simbologia
cristologica. Tuttavia, sarebbe un errore fermarsi a questo punto di vista. Il
libro, così come oltrepassa la cronaca, sfata anche la rappresentazione univoca
del suo protagonista («ho così tante persone dentro», p. 22) e trasforma il
messaggio figlio-madre in una riflessione che l’autrice rivolge ai suoi lettori
come ad una coscienza collettiva.
Questa raccolta è
soprattutto un luogo di coscienza, di indagine su come la coscienza umana possa
rapportarsi con il male. La riflessione civile viene staccata dalla cronaca e
introiettata dentro la vita interiore dei singoli o portata in una forma
sottile di escatologia. Ad ogni suo lettore questo libro chiede una riflessione
sul suo senso di responsabilità e di civiltà. Ciò si verifica attraverso alcune
caratteristiche chiave. Una di queste è la simbologia che contiene la parola
«madre». Con massima visibilità fin dal titolo, essa è il punto di riferimento
del messaggio collettivo che ha il libro e simboleggia l’invito a una
meditazione etica, tanto laica quanto spirituale. Per questo la simbologia
della «madre» genera una tensione alla trascendenza in una osmosi costante
dell’intimità degli affetti e una dimensione cosmica: come se tra la storia di
Regeni e le nostre individualità non possa più essere tracciata con certezza
una «nozione di confini» (p. 43). Anche il punto di vista letterario e
meta-letterario tendono a incrociarsi («ora il libro è il mio corpo», p. 53),
indicando proprio nella poesia la capacità di una conoscenza dei fatti del
mondo sensibile e intellegibile, a tal punto che i limiti dei fatti riescono
sempre ad essere trascesi in una rappresentazione potenzialmente universale.
Dalla
cronaca all’idea di coscienza civile, dal
dialogo figlio-madre a una riflessione sapienziale e cosmica, i
frammenti della raccolta si succedono in una dilatazione verticale. Ciò è
favorito in larga misura dallo stile che ha l’abilità di fondere insieme un
senso di leggerezza aerea e la nettezza di una pietra levigata, ricreando in
questo modo un equilibrio tra la vertigine metafisica e una spiritualità calata
in una attenta percezione sensibile. La scrittura tende alla sublimazione, per
sottrazione ed ellissi, come dicevo all’inizio. La sua forza è la brevitas, che si riscontra sia nelle
scelte stilistiche, come la sintassi, la retorica e il lessico lineari, svolti
con molteplici usi sintetici ed ellittici, puliti dalla punteggiatura ridotta
all’essenziale; sia nella metrica dai movimenti brevi e dal ritmo incalzante.
Lo stile è terso e asciutto, per questo dà l’idea di leggerezza aerea e
affilatezza minerale; così la metrica e il ritmo sono netti e incalzanti, in
una combinazione ossimorica tra la grazia volatile, come quella di leggeri foglietti,
e la decisione serrata, similmente a una pietra che graffia sopra un’altra
pietra. Viene da pensare a Ungaretti – cruciale per l’autrice nella sua
formazione e nel suo rapporto con la lingua italiana – e a Celan, come nota
Prisca Agustoni nella postfazione. Nel contatto tra volatilità e esattezza, tra
il foglio e la pietra, la dizione apre uno squarcio, proietta in un abisso: tra
il dramma della vicenda di cronaca (la modalità di monologo teatrale ne è
sintomatica) e un equilibrio di saggezza certosina (per cui il monologo si
trasforma alla fine quasi in una salmodia di versetti aforismatici). Dal
momento che questo libro è stato scritto in italiano, non in brasiliano con
successiva traduzione come molti altri lavori di Vera Lúcia, credo che anche la
transazione tra una lingua e l’altra caratterizzi la forza delle sue scelte
formali e della sua voce civile. Con stile diverso, nella poesia italiana di
oggi Anedda ha già saputo fare poesia civile in modo affine, ha trasceso la
cronaca in una riflessione rivolta alla coscienza del singolo individuo e a
quella collettiva: dall’io al coro (penso a Notti
di pace occidentale, a Dal balcone
del corpo). Come può una poesia lirica essere civile? Con questa domanda
possiamo chiudere Ditelo a mia madre,
con un invito a ripensare gli stereotipi e la funzione conoscitiva di un
linguaggio come la poesia che nella sua particolare articolazione e icasticità
ci dice sempre come gli eventi della storia e il breve frammento di una vita
possano essere portati al di là dei loro limiti, come i fatti possano diventare
spazio di coscienza.
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